A urne chiuse, si può indagare sul Pd

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Non chiamiamola giustizia a orologeria, se mai a cronometro, perché certe tempistiche magistrali spaccano il secondo, e magari un po’ anche il voto. Unicuique suum: la scadenza, come la lex, è uguale per tutti, ma per qualcuno sembra esserlo appena un istante di più. Riassunto delle puntate precedenti.

Caso Morisi

Il 23 settembre Luca Morisi, responsabile della comunicazione social di Matteo Salvini, comunica inopinatamente le sue dimissioni: si capisce che c’è qualcosa in ballo, anche se cosa, lo sanno solo quelli che conoscono i fatti ancor prima che succedano. Difatti, 72 ore dopo, il 26 settembre, deflagra la notizia di una perquisizione a casa di Morisi, una cascina di Belfiore in provincia di Verona, che ha portato al ritrovamento di una modica quantità di cocaina per uso personale. È l’inizio di una alluvione di fango, coi giornali di sinistra che si fiondano sulla storiaccia dei due escort romeni giunti a intrattenere l’ex portavoce a domicilio per un festino con tanto di sostanze stupefacenti. Aleggia pure il fantasma di un quarto uomo, che non si riuscirà mai a identificare. Morisi perde tutto, nessuno gli crede, viene dipinto come uno spacciatore depravato alla caccia di giovani vittime, obbligate dalle circostanze a concedersi al sodale di un leader politico che, a un certo punto. I fatti risalgono al giorno di Ferragosto ma escono, si potrebbe dire chirurgicamente, oltre un mese dopo, a ridosso delle elezioni amministrative. E sono molto diversi da come vengono ricostruiti: meno di venti giorni, e la Procura di Verona conferma che il procedimento su Morisi va senz’altro verso l’archiviazione: la droga non era sua, l’avevano portata i due ospiti, che emergono per marchettari o, se si preferisce, professionisti del sesso a pagamento.

La “lobby nera” di Fanpage

Mentre è ancora alto il polverone su Morisi (e, ovviamente, su Salvini), tocca a Giorgia Meloni. Una anomala inchiesta del sito Fanpage mostra pochi minuti di girato su un totale di un centinaio di ore, accumulate in tre anni durante i quali un infiltrato del sito ha aizzato elementi legati a Fratelli d’Italia con l’esca di operazioni fittizie quanto irregolari: ci vanno di mezzo l’europarlamentare Carlo Fidanza e un pittoresco personaggio, Roberto Jonghi Lavarini, conosciuto come “il barone nero”, che nel partito della Meloni non ha più alcun ruolo da anni. Il clamore è immediato, alla leader di Fratelli d’Italia si rimproverano debolezze fasciste, si nega la patente democratica, la si mette alla berlina; Giorgia Meloni reagisce, si difende piuttosto bene, ma non può arginare, ancora una volta, la colata di fango che si scarica anzitutto addosso a lei. Intanto la procura di Milano apre una indagine per riciclaggio e finanziamento illecito su Fidanza, con ventilati sviluppi legati all’apologia di fascismo per Jonghi Lavarini.

Siamo nei primi 10 giorni di ottobre, a cavallo fra i due turni elettorali delle consultazioni amministrative (3-4 ottobre e 17-18 ottobre per i ballottaggi). Circa la così chiamata “Lobby nera”, l’Unione Camere Penali dirama un durissimo comunicato: “Questo non è giornalismo di inchiesta così come lo si vuol definire (…), piuttosto il frutto di una vera e propria attività investigativa, sottratta a qualunque forma di controllo dell’Autorità Giudiziaria ed alle regole che presidiano la genesi e lo sviluppo delle vicende processuali. Siamo giunti ad un crocevia estremamente pericoloso, nel quale le persone sono offerte in pasto all’opinione pubblica sulla base di informazioni raccolte nel corso di una vera e propria ‘indagine privata’, che addirittura precede e ‘genera’ la vicenda procedimentale propriamente intesa”.

L’inchiesta sui democratici occultata

Le elezioni vanno come vanno, con la preponderante affermazione del centrosinistra nelle principali città, e, poche ore dopo, emergono novità a carico, vedi caso, del Pd. La prima in Umbria, dove tiene banco una storia come minimo surreale, quella del neopresidente della provincia di Perugia Sandro Pasquali, fortissimamente voluto dalla locale nomemklatura e in particolare dal consigliere democratico (nel senso del partito) Tommaso Bori. Senonché Pasquali è un amministratore già oberato: sindaco di Passignano sul Trasimeno, vicepresidente della stessa Provincia perugina, viene associato al gruppo piddino in Regione ma, pressoché contestualmente, congelato in aspettativa. Coi contributi, naturalmente. La cosa non convince il procuratore Raffaele Cantone, che consulta il codice e inquisce Pasquali per truffa ai danni dello Stato. Dai media democratici (in tutti i sensi), un rigo o poco meno.

Orlando, notizia indagini solo dopo il voto

Restiamo in casa progressista ma scendiamo di parecchio, andiamo a Palermo: qui il sindaco Leoluca Orlando, storico e inamovibile paladino della legalità, dell’antimafia, dei migranti, dei valori, degli ideali, tutti pompati con orge di retorica tribunizia, si ritrova, ohibò, indagato per falso in bilancio comunale nel periodo 2017 (anno del suo insediamento)-2019 insieme ad altri 23 burocrati fra assessori, dirigenti, capi area. Un tripudio della legalità, appena disinvolta secondo la Guardia di Finanza che per mesi e mesi ha scartabellato fra numeri, tabelle e documenti; il risultato, secondo le risultanze d’indagine, è che “I pubblici ufficiali sottoscrivevano e inviavano all’ufficio Ragioneria generale delle schede di previsione di entrate sovrastimate (tenuto conto dei dati – a loro noti – degli effettivi accertamenti delle entrate nelle annualità precedenti) così inducendo in errore il consiglio comunale di Palermo sulla verità dell’atto, determinandolo ad adottare la deliberazione con la quale veniva approvato il bilancio di previsione”.

Poi uno si stupisce che Orlando così difendesse il collega di Locri Lucano: “Tentativo di criminalizzare la cultura dell’accoglienza”. Orlando e i 23 restano, s’intende, semplici indagati, però non da oggi: anzi oggi (ieri, in realtà) tutti hanno ricevuto l’avviso di conclusione delle indagini. Delle quali si è saputo solo a 96 ore dalle amministrative.

Il caso di Domenico Arcuri

Lo stesso si può dire per Domenico Arcuri, l’ex potentissimo supermanager cui all’inizio del 2020 il premier Giuseppe Conte aveva affidato la gestione dell’emergenza pandemica legata al Covid. Arcuri risulta indagato dalla Procura di Roma per le ipotesi di peculato e abuso d’ufficio in relazione all’acquisto di 800 milioni di mascherine di fabbricazione cinese, operazione che lascia sospettare percezioni di denaro non giustificato a beneficio tre personaggi in funzione di intermediari, anche loro nel registro degli indagati: l’ex giornalista Rai Mario Benotti, considerato una sorta di trait d’union, e gli imprenditori Andrea Vincenzo Tommasi ed Edisson Jorge San Andres Solis, i quali entrano nel fascicolo in qualità di uomini d’affari, peraltro se in settori del tutto estranei a quello sanitario.

I pm procedenti, Gennaro Varone e Fabrizio Tucci, coordinati dal procuratore aggiunto Paolo Ielo, vogliono chiarire le circostanze della maxicommessa, costata allo Stato italiano 1,2 miliardi e sulla quale grava il sospetto di 67 milioni di provvigioni indebite, ma anche l’eventuale frode nelle pubbliche forniture, conseguente alla totale non conformità dei dispositivi di protezione così come verificati dalle analisi tecniche dopo il decreto di sequestro eseguito dalla Guardia di Finanza sia presso struttura commissariale nazionale sia nelle sedi regionali. Tra l’altro, risultano ancora giacenti 230 milioni di mascherine a questo punto inutilizzabili. La notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati di Arcuri e degli altri arriva dopo una prolungata attività investigativa, diramatasi da e su diverse direttrici sulla scia dell’approvvigionamento di preparati e strumenti sanitari.

Esattamente 8 mesi prima, nel febbraio di quest’anno, era stato ancora il procuratore di Perugia Raffaele Cantone ad occuparsi per primo delle circostanze legate alla somministrazione dei primi vaccini affluiti in Italia secondo modalità considerate opache al punto da giustificare un mandato ai carabinieri del Nas del capoluogo umbro per l’acquisizione di documenti specifici dalla struttura guidata da Arcuri così come dall’Aifa. Anche la Regione Veneto risultava riguardata nell’attività informativa sulle carte. Tutto era scaturito da un tentativo di truffa ad opera di quarantenne originario della provincia di Messina il quale, un mese prima, accreditandosi falsamente come intermediario per conto di Astrazaneca internazionale aveva proposto alla Regione Umbria l’acquisto di vaccini anti Covid.

Circa la faccenda delle mascherine, invece, era stata “La Verità” ad annunciare l’esistenza di un fascicolo esplorativo lo scorso aprile. La vicenda è ghiotta, anche perché i politici proiettati lungo la “via della seta” cinese sono parecchi. Ma la notizia dell’ipotetico coinvolgimento di Arcuri, nel frattempo giubilato dal nuovo premier Draghi, sarebbe uscita soltanto sei mesi dopo, in modo politicamente indolore visto che le elezioni si erano concluse da poche ore. Non fossero coincidenze, o sincronicità junghiane, sarebbe davvero da parlare di giustizia cronometrica.

Max Del Papa, 22 ottobre 2021

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