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FOCUS I nuovi equilibri del credito

Altro che prestiti, le banche ormai sono dei negozi finanziari

“Io vado in banca” a “stipendio fisso, così mi piazzo e non se ne parla più”, cantava Nanni Svampa nel 1966, mentre i prestiti delle banche si trasformavano in mutui e quindi in case di proprietà per le famiglie e in finanziamenti per lo sviluppo delle piccole e medie imprese del made in Italy. A distanza di poco più di mezzo secolo molto è cambiato sia nel lavoro del bancario, a partire dalla semi-scomparsa della figura del cassiere, sia nell’industria del credito: le banche – dimostra uno studio della Fabi, il principale sindacato di settore – sono diventate dei negozi finanziari, che guadagnano dalla vendita di fondi e polizze. La prova è nei numeri: l’anno scorso, sul totale di 82 miliardi di ricavi, quelli legati alle commissioni hanno raggiunto il 53,6% (44 miliardi) del totale, rispetto al 46,4% (38 miliardi) dei proventi riconducibili ai finanziamenti concessi a imprese e famiglie. In totale, sono cresciuti di 4,6 miliardi i ricavi derivanti dalla vendita di prodotti finanziari e assicurativi, dalla gestione della vendita di carte di credito, dal risparmio gestito e hanno ampiamente compensato il calo dei proventi arrivati dal versante degli impieghi (meno 543 milioni). Né deve trarre in inganno la crescita dei ricavi di 4,1 miliardi, perché il volano del conto economico resta il vertiginoso aumento delle commissioni pagate dalla clientela. Un bel problema per un Paese come il nostro tradizionalmente bancocentrico e con imprese sottocapitalizzate, anche perché il divario tra il peso di commissioni e prestiti nei bilanci delle banche si sta allargando: era inferiore al punto percentuale (50,4% contro 49,6% o 39,5 miliardi contro 38,7 miliardi) nel 2020, anno dello storico sorpasso. “Le banche non svolgono più il ruolo sociale di un tempo”, sintetizza il leader della Fabi, Lando Maria Sileoni, rimarcando come gli istituti stiano rinunciando a fare credito, un’attività oramai vista come poco remunerativa a causa dei tassi rasoterra e piena di rischi, a causa del rigore con cui la Bce le obbliga a maneggiare eventuali sofferenze.

 

I mastini della Bce e i Big del web

Quello che ancor più dovrebbe preoccupare la politica è la tendenza di medio periodo; solo nel 2010 il settore del credito fatturava 91,2 miliardi, di cui 53,4 derivavano dai prestiti e 36,7 dalle commissioni, contro i 78,1 del 2021, di cui 39,4 miliardi (50,4%) per la vendita di prodotti finanziari e assicurativi contro 38,7 miliardi (49,6%) derivanti dagli impieghi. Insomma, in undici anni l’intero circuito bancario italiano ha rinunciato a oltre 15 miliardi di “fatturato” legato ai prestiti (margine d’interesse) a beneficio degli “altri ricavi”. Ha fatto eccezione, dal punto di vista dei prestiti, il 2021, quando i crediti verso la clientela sono cresciuti di circa 60 miliardi, da 1.517,1 a 1.577,7 miliardi, ma molto è dovuto al paracadute delle garanzie pubbliche sui nuovi prestiti per arginare le macerie lasciate dalla pandemia Covid. Ma che cosa è a provocare questa trasformazione delle banche da motori dell’economia a supermercati finanziari? Da un lato molto pesa la Banca centrale europea che detta regole sempre più stringenti sulle erogazioni e non vuole bilanci appesantiti da nuove sofferenze, dall’altro fare prestiti con i tassi rasoterra è poco conveniente. A trasformare le banche è poi la concorrenza dei big Internet che, dopo aver aggredito i pagamenti digitali, stanno entrando anche nel credito al consumo, “erodendo” altre quote di mercato alle banche. Basti pensare alla possibilità di rateizzare senza interessi gli acquisti saldati con Paypal o ai servizi di Apple o di Amazon. A cui va aggiunto che i vertici degli istituti devono remunerare gli azionisti per essere promossi dal mercato.

 

Lando Maria Sileoni è Il segretario generale della Fabi, il principale sindacato dei bancari che conta 120mila iscritti

 

I bancari costretti a vendere prodotti

Per tenere il passo con gli utili, gli istituti di credito spingono quindi su prodotti finanziari e assicurativi, fino a rendere i bancari che lavorano nelle filiali dei “venditori”, alla stregua di quello che accade in qualsiasi negozio. Il rischio è che la situazione possa portare a contrapporre due fragilità, da un lato i dipendenti delle banche, dall’altro la clientela. Ecco perché la Fabi ha di recente esposto il problema alla Commissione parlamentare di inchiesta sul sistema bancario, denunciando le indebite pressioni commerciali esercitate dai vertici dei gruppi sui lavoratori del credito perché vendano sempre di più polizze e fondi, anche ponendo loro dinanzi a budget difficili da centrare e a ritorsioni personali in caso di insuccesso. Il mutato cocktail dei ricavi delle banche e le pressioni commerciali sono due facce della medesima medaglia, spiega Sileoni: “E’ una questione di carattere sociale e non solo strettamente sindacale. Se i giganti del web, peraltro favoriti dalla sostanziale assenza di regole, eroderanno quote di mercato alle banche, quest’ultime punteranno sempre di più sulla vendita di prodotti finanziari. Il rischio è che le banche non svolgeranno più quell’importante ruolo sociale di un tempo e i danni li toccheremo con mano sui territori”.

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