A Taiwan festa nazionale, a Pechino epurazioni in vista del XX Congresso

Repubblica Democratica di Cina fondata nel 1912, l’isola non fu mai sotto il controllo della Cina comunista. Smentite le voci di colpo di stato a Pechino, ma clima di sospetti

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Taiwan, ufficialmente Repubblica Democratica di Cina-Taiwan, festeggia la sua festa nazionale il 10 ottobre. La Repubblica di Cina fu fondata nel 1912 in territorio cinese continentale. A quel tempo, l’isola di Taiwan era sotto il dominio coloniale giapponese a seguito del Trattato di Shimonoseki del 1895, con il quale l’impero Qing la cedette al Giappone.

Taiwan mai sotto Pechino

Il governo della Repubblica Democratica di Cina iniziò ad esercitare la giurisdizione su Taiwan nel 1945, dopo la resa del Giappone alla fine della Seconda Guerra mondiale. E nel 1949 dovette trasferirsi proprio a Taiwan mentre combatteva la guerra civile con il Partito Comunista Cinese.

Da allora, la Repubblica Democratica di Cina ha continuato ad esercitare la giurisdizione effettiva sull’isola principale di Taiwan e su un certo numero di isole periferiche, permanendo Taiwan e Cina Popolare ciascuna sotto un governo diverso.

Dunque, le autorità di Pechino non hanno mai esercitato la sovranità su Taiwan o su altre isole amministrate dalla Repubblica Democratica di Cina. Questo è un dato di fatto incontrovertibile.

Nascita della Repubblica di Cina

La festa nazionale di Taiwan commemora l’inizio della rivolta di Wuchang, in Cina, il 10 ottobre 1911. La rivoluzione pose fine alla dinastia Ching (Qing), creata dai Manciù nel 1644. L’insurrezione portò all’istituzione della Repubblica di Cina, il 1° gennaio 1912.

L’autorità e il controllo della corte Ching erano diminuiti dall’inizio del XIX secolo e all’inizio del XX secolo la Cina era diventata vulnerabile alle influenze giapponesi e occidentali. L’insoddisfazione per tali circostanze diede vita ad una ribellione nazionalista guidata da Sun Yatsen.

L’insurrezione di Wuchang ebbe successo e scatenò rivolte in altre città della Cina. Sun Yatsen fu nominato presidente ad interim della neonata Repubblica dopo l’inevitabile crollo dei Manciù. Ma dopo la guerra civile vinta dal Partito Comunista Cinese, nel 1949 la Repubblica di Cina (ROC) perse il controllo del territorio continentale e fu “costretta” sull’isola di Taiwan.

A Taiwan, la celebrazione formale inizia con l’alzabandiera davanti all’edificio degli uffici presidenziali, seguita dal canto pubblico dell’Inno nazionale. Seguono i festeggiamenti, inclusa una parata militare. Molti componenti delle culture tradizionali cinesi e taiwanesi, come la danza del leone e le squadre di tamburi, si aggiungono ai festeggiamenti. Nel corso della giornata, il presidente rivolge alla nazione un attesissimo discorso ufficiale.

Il prezzo della democrazia

In queste ultime settimane la democratica Taiwan è, suo malgrado, al centro dell’arena geopolitica per l’atteggiamento aggressivo assunto dalla Cina Popolare nei suoi confronti. Taiwan è, senza ombra di dubbio, lo Stato democratico che paga il prezzo maggiore dell’ascesa di Pechino come superpotenza dall’inizio del 21mo secolo.

Nel contesto dell’inarrestabile ascesa della Cina Popolare come superpotenza economica e (presunta) militare, Taiwan, al momento, è l’unico Paese che vede a rischio la sua economia, i suoi traffici commerciali e che, se possibile, dovrà difendere le sue spiagge, i suoi centri abitati, preservare la sua democrazia e tenere in vita la sua presidente, che ha avuto il coraggio si dichiarare: “Noi non soccomberemo alle pressioni della Cina Popolare… Taiwan è uno stato sovrano e indipendente”.

La minaccia, non velata, è quella di trasformare l’isola in uno Stato di polizia, dopo una cruenta occupazione militare, avendo Pechino già dimostrato al mondo come agisce a Hong Kong e nelle aree in cui c’è un’opposizione al regime comunista.

Le intimidazioni di Pechino

Come noto, Pechino da oltre un mese porta avanti esercitazioni militari nello Stretto di Taiwan e nei mari orientali, cercando di modificare unilateralmente lo status quo e mettendo a serio rischio la sicurezza e gli equilibri regionali e globali.

Queste azioni, quanto meno “esagerate”, sono conseguenza della recente visita di Nancy Pelosi a Taiwan, a parere di Taipei una visita legittima da parte di una rappresentante del popolo americano.

La Speaker Pelosi ha voluto dimostrare la vicinanza degli Stati Uniti alla democrazia, alla libertà e al rispetto dei diritti umani, che sull’isola sono elementi strutturali della società.

Ma la sua visita è stata utilizzata da Pechino come pretesto per giustificare una chiara quanto impropria volontà: modificare con l’uso della forza, unilateralmente e a proprio vantaggio gli equilibri regionali, minacciando la stabilità dell’Indo-Pacifico.

A Pechino epurazioni in vista del Congresso

Molto diverso il clima nella Cina Popolare. In questi giorni si accavallano voci (infondate) di colpi di stato militari, che alimentano speculazioni febbrili in vista di un incontro chiave del Partito Comunista, da sempre al potere.

Il 16 ottobre si svolgerà il XX Congresso del Partito Comunista nel quale al presidente Xi Jinping dovrebbe essere concesso un terzo mandato, avvenimento senza precedenti che dimostra l’assoluta mancanza di democrazia nella Cina comunista.

La probabile incarcerazione di una gruppo di alti funzionari della sicurezza con l’accusa di corruzione, seguita da giorni di strane e rapidamente dissipate voci di Xi agli arresti domiciliari, hanno alimentato quello che più di un analista ha definito un ambiente “serra”, avvolto nella segretezza e nel sospetto.

La scorsa settimana, un tribunale cinese ha condannato l’ex viceministro della pubblica sicurezza Sun Lijun, l’ex ministro della giustizia Fu Zhenghua e gli ex capi della polizia di Shanghai, Chongqing e Shanxi con l’accusa di corruzione. Fu e i capi della polizia erano stati accusati di avere atteggiamenti sleali nei confronti di Xi.

Sembrerebbe che quanto trapelato possa essere una delle più grandi epurazioni politiche in Cina degli ultimi anni, e ciò a pochi giorni dal più importante congresso del Partito Comunista Cinese.

Xi dovrebbe essere riconfermato leader del partito e dell’apparato militare (dopo aver abolito il limite di due mandati nel 2018) a seguito di una campagna “anticorruzione” durata anni che ha preso di mira principalmente gli oppositori politici.

Le voci di colpo di stato

Domenica passata i media statali hanno annunciato il completamento dell’elenco dei delegati del Comitato centrale del PCC, che conta quasi 2.300 membri. L’inclusione di Xi nella lista ha ulteriormente smentito le voci di un colpo di stato diffuse sui social media, ma non prima che iniziassero ad essere di tendenza.

Drew Thompson, uno studioso della Lee Kuan Yew School of Public Policy, ha affermato che un colpo di stato nella Cina Popolare non era del tutto inverosimile e Xi avrebbe mostrato preoccupazione per la prospettiva, in passato, ma le voci fatte circolare sembravano più un “pio desiderio”.

Atteso che il congresso del Partito Comunista è un processo segreto di distribuzione del potere, con le posizioni più alte non annunciate fino all’ultimo giorno, il controllo del governo sulla narrazione interna e la repressione del dissenso si è, nella logica comunista, intensificata con l’avvicinarsi della riunione.

Xi è stato lontano dagli sguardi dell’opinione pubblica da quando è tornato dal vertice SCO (Shanghai Cooperation Organization) di Samarcanda, in Uzbekistan, lo scorso fine settimana.

Gli osservatori geopolitici a Pechino hanno lasciato intendere che il leader cinese fosse in quarantena per il “Virus di Wuhan”, figlio proprio della inefficienza (se si crede all’ipotesi dell’incidente di laboratorio) della Cina Popolare.

Il “leader del popolo”

Il congresso, al via il 16 ottobre nella Grande Sala del Popolo di Pechino, è chiuso al pubblico, ma è l’evento più importante del ciclo politico quinquennale del PCC. Si ipotizza che XI possa consolidare ulteriormente il suo potere con la promozione dei suoi fedelissimi più influenti a posizioni di alto livello e che il Partito Comunista resusciterà il titolo di “leader del popolo”, non utilizzato dai tempi di Mao Zedong.

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