Afuera! Riuscirà Milei a segare lo statalismo e ricostruire l’Argentina?

Il rischio di fallire. Ma il suo trionfo toglie alibi ai timidi liberali italiani che pensano sia ingenuo proporre le loro idee se l’opinione pubblica è assuefatta allo statalismo

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È successo l’impensabile, quel che gli analisti chiamano “cigno nero”: in Argentina, uno dei Paesi più statalisti del mondo, Javier Milei è stato eletto presidente. Non ha solo vinto, ma ha trionfato, dando 11 punti di stacco al peronista Sergio Massa.

Questo evento era impensabile perché Milei è un libertario, un economista austriaco, un pensatore politico convinto che lo Stato sia un male e neppure necessario, noto per i modi burberi, per la sua motosega e per i discorsi pieni zeppi di parolacce, fra cui il suo motto “Viva la libertad, carajo!” (carajo ha tante traduzioni possibili, nessuna educata).

In Italia, fino a un paio di anni fa, lo conosceva soltanto Leonardo Facco, l’editore libertario che ha tradotto e diffuso per primo i suoi scritti. Oltre ai piccoli circoli libertari semi-clandestini non lo conosceva nessuno. In Argentina era più noto, ma come polemista e ospite guastatore nei talk show, dove insultava apertamente peronisti, socialisti e comunisti (e il suo conterraneo Papa Francesco).

Lo statalismo argentino

L’ascesa di Milei è stata vertiginosa e improvvisa, come al solito non è stata prevista dagli osservatori della politica. Gli argentini, dal primo mandato di Juan Peron (1946) in poi, hanno visto alternarsi periodi di democrazia e di dittatura, hanno eletto governi di destra e di sinistra, ma sempre e comunque statalisti. Nemmeno i presidenti più liberaleggianti, come Menem e più recentemente Macri, sono riusciti a invertire questa tendenza. Lo statalismo argentino ha subito dimostrato tutta la sua disfunzionalità: prima di Peron era il Paese più ricco dell’America latina, rivaleggiava con gli Usa. Da Peron in avanti ha continuato a rallentare, poi a declinare, fino ai default a catena dell’ultimo quarto di secolo.

Ogni sistema statalista selvaggio, comunque, è destinato a finire, a meno che non sia protetto con la forza delle armi da un regime dittatoriale. E in Argentina lo Stato è arrivato al capolinea: l’inflazione è al 142 per cento, il 40 per cento della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà relativa, l’8 per cento vive in povertà assoluta. Il debito dell’Argentina nei confronti del Fondo Monetario Internazionale ammonta a 44 miliardi di dollari Usa. È in questo scenario che la maggioranza assoluta degli argentini ha deciso di dare il suo voto non a un riformatore istituzionalizzato, ma all’outsider.

Il programma

Milei non ha fatto mistero del suo programma: tagli alla spesa pubblica (almeno il 15 per cento) e alle tasse (il 90 per cento rispetto a quelle attuali); privatizzazione delle aziende pubbliche, della sanità e dell’istruzione; lotta all’inflazione effettuata nel modo più drastico immaginabile: con l’abolizione della banca centrale e l’adozione di una moneta straniera forte (il dollaro) come valuta corrente.

Niente più alibi

Si tratta di un’agenda molto più liberale rispetto al più liberale dei nostri programmi (quello di Forza Italia del 1994 era comunista, in confronto), ma ha preso i voti da una popolazione che in maggioranza dipende dallo Stato. Attualmente, più della metà dei lavoratori argentini sono impiegati pubblici. Eppure deve esserci un punto, oltre il quale anche la società più statalista del mondo decide di voltare pagina, se non altro per sopravvivere. E questo punto è stato superato ieri.

Per questo il trionfo del libertario Milei toglie ogni alibi ai timidi liberali italiani, quelli che pensano che sia ingenuo proporre le proprie idee se l’opinione pubblica è abituata allo statalismo.

Il rischio di fallire

Ma nessuno sa ancora come e se il nuovo presidente (che non è un monarca assoluto) riuscirà a governare. Infatti, il suo partito, la Libertà Avanza, nato appena due anni fa, ha solo una piccola pattuglia parlamentare di 35 deputati (su 257 seggi alla Camera) e 8 senatori (su 72). Per far passare le sue riforme, dunque, Milei avrà bisogno dei voti dei peronisti. Peronisti di destra, come la coalizione della Bullrich e di Macri (che lo hanno sostenuto nel secondo turno), ma pur sempre di cultura statalista.

Le opposizioni, poi, benché perdenti, non molleranno l’osso. L’apparato statale, i sindacati, le amministrazioni locali di sinistra e anche la Chiesa, si metteranno di traverso, ostacoleranno il presidente quanto più possono, con le buone o con le cattive. Dagli scioperi paralizzanti agli attentati, per i prossimi quattro anni possiamo attenderci di tutto.

Il rischio maggiore del primo presidente libertario della storia dell’Argentina è dunque quello di non riuscire a fare nulla. E se non riesce a fare nulla, il suo Paese proseguirà nel suo inesorabile declino, permetterà ai suoi nemici e agli osservatori la classica conclusione che “questa esperienza dimostra che il neoliberismo non funziona”.

La medicina amara

L’altro rischio, ancor più grave, è che Milei riesca a far passare riforme che, nel breve periodo, provocano effetti collaterali negativi, sull’occupazione o anche sulla stessa crescita dell’economia. In tal caso non verrebbe rieletto, potrebbe non portare neppure a termine il mandato e la sua agenda coraggiosa di riforme economiche verrebbe seppellita per decenni.

Le politiche socialiste provocano effetti negativi nel lungo periodo, ma nel breve sembra che generino benessere e creano dipendenza. Funzionano come una droga. Per questo i politici che le promuovono vengono rieletti più spesso rispetto ai politici liberali, le cui politiche producono effetti positivi nel lungo periodo, ma nel breve possono risultare anche molto dolorose.

Il precedente Thatcher

La stessa riformatrice di maggior successo, Margaret Thatcher, nel suo primo governo (1979-83) dovette affrontare piaghe come una disoccupazione crescente, un conflitto sociale apparentemente fuori controllo e anche una temporanea recessione. Solo dal secondo governo riuscì a dimostrare che la sua politica economica produceva crescita, occupazione e benessere.

Ebbe una seconda occasione di governare, non per le sue riforme, ma solo per un evento non deciso da lei e neppure prevedibile: per la guerra delle Falkland, in cui sconfisse… l’Argentina. Allora Milei aveva 9 anni e venne picchiato dal padre, perché aveva osato dire, all’inizio del conflitto, che gli inglesi avrebbero vinto. Fu buon profeta allora, vediamo se lo sarà anche oggi.

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