Tregua in Etiopia, ma proseguono le stragi jihadiste in Somalia

I tigrini accettano il disarmo in cambio di spazio nelle istituzioni e integrazione nelle forze armate. A Mogadiscio il secondo più grave attentato di al Shabaab

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È tregua in Etiopia dopo due anni di combattimenti. Governo e Fronte popolare di liberazione del Tigré (Fplt) lo hanno deciso a Pretoria, in Sudafrica, il 2 novembre. L’Fplt ha accettato il disarmo dei propri combattenti, la loro smobilitazione e il loro inserimento nell’esercito nazionale.

Un primo passo

Il primo passo, il disarmo completo, dovrà avvenire entro due settimane dalla fine, prevista tra pochi giorni, dei colloqui attualmente in corso in Kenya, nella capitale Nairobi, tra il capo dell’esercito etiope Berhanu Jula e il comandante dell’Fplt Tadesse Worede. È un primo passo di un difficile percorso di pacificazione.

All’origine del conflitto c’è infatti l’intenzione dei tigrini di rovesciare il governo del primo ministro Ahmed Abiy, di etnia Oromo, e riprendere il controllo del Paese, detenuto per quasi 30 anni.

Se adesso accetteranno la leadership di Abiy dipenderà molto da quanto spazio nel governo, nell’amministrazione e nelle forze armate il primo ministro sarà disposto a concedere ai loro leader. Se no, la tregua servirà all’Fplt per ricuperare le forze, riorganizzarsi e prepararsi a una nuova offensiva.

Comunque sia, la sospensione dei combattimenti in Etiopia è una buona notizia, l’unica in questo momento dall’Africa sub sahariana.

Le cattive notizie

Pessime notizie invece continuano ad arrivare dalla maggior parte dei Paesi: in particolare, da Mali e Burkina Faso, sempre più devastati dal jihad; Sudan, dove a uccidere sono i conflitti tribali; Sudan del Sud e Repubblica Centrafricana, senza pace nonostante i molti tavoli di trattative aperti dal 2013; Nigeria, alla prese con una violenza ormai fuori controllo; Ghana, colpito da una gravissima crisi economica (dalla quale il presidente Nana Akufo-Addo cerca di distogliere l’attenzione reclamando risarcimenti per gli africani vittime della tratta atlantica degli schiavi); Repubblica democratica del Congo, Rwanda e Uganda, a un passo dal dichiararsi guerra.

E Camerun, dove la minoranza di lingua inglese è in rivolta e tuttavia stanno per iniziare grandi festeggiamenti per celebrare i 40 anni di presidenza di Paul Biya, in carica dal 1982. Più longevo ancora di Biya è Teodoro Nguema, presidente della Guinea Equatoriale da 43 anni, al potere dal 1979 con un colpo di stato.

Il Paese andrà al voto il 20 novembre e Nguema si è candidato per un sesto mandato. Anche questa non è una buona notizia: lui dice di aver garantito ai guineani decenni di pace, ma, come Biya in Camerun, governa con pugno di ferro e la sua famiglia considera proprio patrimonio personale il petrolio i cui proventi se ben amministrati farebbero dei circa 1,4 milioni di abitanti del Paese la popolazione più ricca del continente.

Situazione critica in Somalia

Ma in questo momento la situazione più difficile è quella della Somalia, in guerra ininterrottamente dal 1987: prima contro il dittatore Siad Barre e poi, dal 1991, tra clan e lignaggi, per la supremazia.

Nel 2004 le istituzioni politiche nate in esilio, in Kenya, con estrema difficoltà e dopo interminabili negoziati tra i clan maggiori, sono state costrette dalla comunità internazionale a trasferirsi nella capitale somala Mogadiscio.

La minaccia jihadista

Da allora il governo deve la sua esistenza ai finanziamenti miliardari dei donors internazionali e alle truppe straniere impegnate a garantire la sicurezza almeno nella capitale. Nel 2006 infatti i clan integralisti – la popolazione somala è quasi tutta di fede musulmana – si sono costituiti in gruppo armato e da allora combattono contro il governo. Si chiamano al Shabaab. Da anni sono affiliati ad al Qaeda.

Attualmente controllano gran parte delle regioni meridionali e centrali della Somalia e, anche dopo essere stati allontanati da Mogadiscio e da alcune altre importanti città, riescono a compiere attacchi e attentati in aree difese dalle truppe governative e straniere.

Si finanziano con il traffico di droga, con i proventi del bracconaggio e, nei loro territori, imponendo tasse e dazi. Nel resto del Paese inoltre estorcono denaro in cambio della assicurazione di astenersi dagli attentati. Imprese, uomini d’affari e persino dei funzionari governativi pagano per la loro sicurezza.

Secondo l’Hiral Institute, specializzato in problemi di sicurezza nel Corno d’Africa, i jihadisti incassano così almeno 15 milioni di dollari al mese, oltre metà dei quali riscossi a Mogadiscio.

Le stragi di al Shabaab

Nella capitale, al Shabaab sceglie come obiettivi dei suoi frequenti attentati gli edifici pubblici e i ritrovi frequentati da politici e funzionari locali e da diplomatici e uomini d’affari stranieri.

Il 29 ottobre ha fatto esplodere due autobomba davanti al Ministero dell’istruzione situato in una zona molto frequentata della città. Le esplosioni si sono succedute a pochi minuti una dall’altra, la seconda dopo che molta gente era accorsa in aiuto.

È stata un strage. Il bilancio tuttora provvisorio è di almeno 120 morti e 300 feriti. Il numero delle vittime continua a salire perché molti feriti sono in condizioni critiche e Mogadiscio non dispone di strutture sanitarie sufficienti.

Il 30 ottobre il ministro della sanità Ali Haji, che presiede un comitato subito creato per affrontare l’emergenza, aveva chiesto a Kenya, Turchia, Egitto e Arabia Saudita di mandare dei medici per assistere i feriti ai quali il personale sanitario locale non è in grado di provvedere e per i quali non è possibile organizzare un ponte aereo per trasportarli altrove.

È stata anche lanciata una campagna per la donazione di sangue. Quello disponibile non basta, non esiste nel Paese una banca del sangue nazionale e gli ospedali privati fanno pagare le trasfusioni.

Per numero di perdite umane e danni l’attentato al Ministero dell’istruzione è il più grave messo a segno dai jihadisti dopo quello del 14 ottobre del 2017 che uccise quasi 600 persone, sempre a Mogadiscio e con autobombe.

Il presidente somalo

All’indomani dell’attentato, il presidente somalo Hassan Sheikh Mohamud ha parlato alla popolazione: “sono qui per assicurare il popolo somalo che attentati come questo non si verificheranno più – ha detto – le bombe erano un messaggio dei militanti, per far sapere che sono ancora vivi nonostante le sconfitte subite da parte delle truppe governative”.

Mohamud è stato eletto lo scorso maggio, ma aveva ricoperto la carica di capo dello Stato una prima volta dal 2012 al 2017. Anche allora, quasi con le stesse parole, aveva detto che i jihadisti avevano i giorni contati. Ormai sconfitti, l’intensificazione dei loro attentati era solo una disperata ultima fiammata.

All’epoca la sua elezione era stata accolta con favore a livello internazionale. L’inviato speciale Onu in Somalia Augustine Mahiga aveva definito il suo insediamento l’inizio di una nuova era per il Paese, un grande passo verso la pace e la prosperità grazie alla imminente vittoria su al Shabaab e alla lotta alla corruzione, che continuava a stornare dalle casse statali gran parte dei miliardi donati dalla cooperazione allo sviluppo: almeno tre quarti sistematicamente fatti sparire.

A distanza di anni, oggi la Somalia ancora non conosce pace né prosperità.

Cambiare nome ai jihadisti non basta

Il 7 novembre il ministero degli affari religiosi ha bandito l’uso del termine al Shabaab (che in arabo vuol dire “la gioventù”) e ha detto che d’ora in poi il gruppo jihadista deve essere chiamato “Khawarij”, un termine spregiativo che significa “setta deviante”. Il governo ha spiegato la decisione del ministero come parte della guerra al gruppo, così come la recente proibizione ai mass media locali di riportare notizie sulle attività di al Shabaab.

Non è la prima volta che il governo somalo cambia il nome ai jihadisti. Nel 2015, sempre mentre l’attuale presidente svolgeva il suo primo mandato, aveva ordinato ai mass media di chiamarli “Ugus”, acronimo in lingua somala che sta per “il gruppo che massacra i somali”. In risposta al Shabaab aveva minacciato di punire chiunque avesse obbedito, giornalisti inclusi.

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