Nelle sceneggiate in Qatar un sintomo del malessere dell’Occidente

Ai Mondiali inchini a costo zero al politicamente corretto. Ma per ergersi a paladini delle libertà e dei diritti bisogna conservare un minimo di credibilità e coerenza

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Le reazioni sconclusionate e isteriche che stanno suscitando i Mondiali di calcio in Qatar sono il sintomo di un malessere ideologico che ormai attanaglia le società occidentali. Chi anima il dibattito ha dimostrato di essere affetto da gravi forme di amnesia e si attorciglia molto spesso in pesanti contraddizioni.

Invece, se si vuol assurgere al ruolo di paladini delle libertà e dei diritti, è necessario aver conservato un po’ di credibilità e aver dimostrato un minimo di coerenza.

Nel passato recente, non si ricordano analoghe levate di scudi durante altri importanti eventi sportivi ospitati da Paesi che non sono proprio un fulgido esempio di democrazia. Basta citare la precedente Coppa del mondo di calcio tenutasi nella Russia putiniana o i Giochi olimpici di Pechino del 2008.

L’indignazione postuma dei tedeschi

Perciò, i gesti come quello dei giocatori della nazionale tedesca, i quali hanno portato le mani sulla bocca durante la foto di rito pre-partita, per protestare contro la FIFA, rea di aver vietato di indossare la fascia arcobaleno “One Love” in favore della causa Lgbtq, risultano più grotteschi che efficaci, un inchino a costo zero al politicamente corretto più che una vera e propria sfida per i diritti lesi nella terra degli sceicchi.

Con una battuta, si potrebbe affermare che la scelta più dirompente sia stata quella degli italiani che hanno boicottato la manifestazione.

Tornado seri, il fatto che in Qatar l’omosessualità venga considerata come una “malattia mentale” punita severamente dal codice penale lo si sapeva già quando è stata effettuata la scelta per la sede di questi Mondiali. Per cui, tutta questa indignazione postuma suona stonata e poco sincera.

Così come risulta un tantino altisonante il tweet della Federazione calcistica tedesca che così ha commentato la condotta dei propri giocatori: “Non si è trattato di una dichiarazione politica. I diritti umani non sono negoziabili. Questo dovrebbe essere dato per scontato, ma non è ancora così. Ecco perché questo messaggio è così importante per noi”.

E ci mancherebbe che la tutela dei diritti umani non sia fondamentale, ma probabilmente doveva esserlo anche quando si è presa una decisone così controversa che ha pure sconvolto il normale calendario delle competizioni calcistiche.

Ammuina che non serve a niente

Tuttavia, le sterili schermaglie di questi giorni non sembrano lo strumento più appropriato per sostenere la causa dei diritti laddove sono minacciati o addirittura negati. In compenso, ha indossato la fascia incriminata il ministro dell’interno tedesco, Nancy Faeser, che era seduta in tribuna proprio accanto al presidente della FIFA, Gianni Infantino, durante la sconfitta della sua Germania contro il Giappone.

Ciò non toglie che restano delle perplessità sulla reale incidenza di queste iniziative estemporanee. La certezza è che, dopo un po’ di caciara, quando si spegneranno i riflettori degli stadi e i tifosi saranno tornati nei rispettivi Paesi, in Qatar non si registrerà nessun avanzamento sul piano dei diritti civili.

Questo senza dimenticare che l’emiro del Qatar è proprietario di una delle squadre europee più ricche e blasonate cioè il Paris Saint Germain. D’altronde, l’ambasciatore del torneo, Khalid Salman, era stato chiaro nell’accogliere le trentadue federazioni calcistiche partecipanti al mondiale: “Accetteremo tutti coloro che verranno nel nostro Paese ma loro dovranno accettare le nostre regole”.

Insomma, chi pensava di recarsi in Qatar a fare la rivoluzione à la page è rimasto assai deluso ed è stato privato perfino della birra che è uno degli sponsor principali della kermesse. Come un buon democristiano dei tempi andati, lo stesso Infantino aveva cercato di smorzare le polemiche: “Pensiamo al calcio, non vi fate trascinare in battaglie ideologiche”.

Qualche giorno dopo, aveva provato a dare un colpo al cerchio e uno alla botte: “Oggi mi sento qatarino, gay e migrante”. Una maldestra e poco convincente rivisitazione dell’Ich bin ein berliner kennedyano.

L’impressione, al contrario, è che l’ammuina regni sovrana e che anche gli spiriti più ribelli saranno costretti a recedere dagli intenti bellicosi con l’avanzare del torneo verso il suo epilogo.

Corsi e ricorsi storici

Lo spettacolo deve andare avanti, come successe per esempio in Argentina nel 1978 quando la Nazionale ospitante trionfò nel periodo di massima repressione della dittatura militare, in cui si registrò la tragica scomparsa di migliaia di dissidenti. Un paio di anni prima, l’Italia del tennis aveva vinto la Coppa Davis nel Cile governato da Pinochet.

Ci fu un ampio dibattito sulla necessità di rinunciare alla finale. Intervennero politici, attori, cantanti, con Domenico Modugno schierato per il boicottaggio e Ugo Tognazzi per la partecipazione. Fu imbastita una discussione parlamentare ma, alla fine, prevalse la determinazione di Panatta e compagni di voler giocare e vincere la finale.

Gli atleti azzurri indossarono pure una maglietta rossa, lo stesso colore dei fazzoletti sventolati dalle donne cilene per sensibilizzare il mondo sulla scomparsa di mariti e figli.

Le libertà ristrette in Occidente

Corsi e ricorsi storici, per evidenziare come le decisioni siano sempre più complesse di come vengono declinate oggi che si sta imponendo un pensiero unico politicamente indottrinato. A maggior ragione, l’Occidente che vuol far le pulci ad altri Paesi dovrebbe garantire in ogni momento diritti e libertà. Invece, c’è sempre un’emergenza dietro l’angolo che diventa l’alibi per restringere le prerogative dei cittadini.

Per restare in questo secolo, è sufficiente citare la svolta restrittiva seguita agli attentati dell’11 settembre 2001, che ha reso assai invasivi i controlli aeroportuali, o il recente regime sanitario che ha imposto regole draconiane e vincolato l’esercizio di diritti fondamentali al possesso della certificazione verde.

In più, è necessario registrare anche l’involuzione che ha subito il confronto democratico e la libertà di espressione. In una società digitale come la nostra, si è imposta la tirannia dell’algoritmo che, attraverso i cosiddetti fact checker, cioè gli infaticabili cacciatori delle presunte fake news, decide quali sono i contenuti pubblicabili e quelli che meritano la censura.

Inizialmente, subivano il taglio le foto troppo osé o addirittura le immagini di quadri famosi con scene di nudo (tipo “l’Origine del mondo” di Courbet), poi si è passati a filtrare le idee poco convenzionali come quelle che contestano i dogmi pandemici o l’efficacia dell’immunizzazione

In questo rapido transito dal bigottismo al fondamentalismo sanitario dei controllori telematici, abbiamo assistito a situazioni che avremmo ritenuto assurde fino a qualche tempo fa.

Ergo, la lezione che si ricava da questa vicenda calcistica non può non essere recepita in Occidente. Anche da noi, occorre un cambio di passo. Almeno per essere più autorevoli quando ci si imbatte in qualche dittatore in giro per il mondo a cui incredibilmente si offre addirittura un palcoscenico mondiale per mettere in vetrina il suo regime.

Il coraggio degli iraniani

O, magari, sia d’esempio il coraggio estremo dei calciatori iraniani che hanno sfidato apertamente il feroce regime degli ayatollah non cantando l’inno. O dei loro tifosi che hanno provato a indossare una maglietta con la scritta Woman Life Freedom nella giornata internazionale contro la violenza sulle donne prima che, nel pilatesco silenzio della FIFA, gli zelanti steward sequestrassero il materiale incriminato e ne impedissero l’esibizione all’interno dello stadio.

L’ennesima imbarazzante censura di questo bizzarro e sgangherato mondiale in cui, per ora, trionfano solo l’ardore e l’audacia degli encomiabili giocatori e tifosi iraniani.

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