Asia Bibi è salva, ma non la coscienza dei troppi che per nove anni sono rimasti in silenzio

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La storia di Asia Bibi, seppur a lieto fine, deve farci riflettere. Questa donna, pakistana e cristiana, colpevole solo di aver accidentalmente bevuto da un bicchiere che non era il suo, è stata accusata di blasfemia e poi condannata a morte. Tutto questo per avere offeso, forse, il profeta Maometto.

L’arresto avvenne nel lontano 2009, nove anni fa. Per 3,422 giorni Asia è stata costretta a vivere in un lurido carcere, subendo violenze fisiche e morali, lontano dai suoi affetti più cari. Lontano da suo marito, dai suoi cinque figli. Asia non aveva ucciso nessuno, non era una terrorista. La sua unica colpa era l’amore per Dio, per la religione cristiana.

Nel 2015 la Corte suprema pakistana decise di riaprire questo caso e, proprio ieri, all’interno di una blindatissima sala del Tribunale di Islamabad, tre giudici a dir poco eroici hanno pronunciato questa sentenza storica: “La pena di morte viene annullata. Asia Bibi è assolta. Le testimonianze che l’accusavano sono risultate contraddittorie”.

Un verdetto che ha scatenato forti reazioni in tutto il Pakistan (e non solo), perché questa giovane donna, madre di cinque figli, prima cristiana ad essere condannata all’impiccagione per blasfemia, è diventata così un simbolo delle persecuzioni delle minoranze, in un Paese dove l’Islam è la religione di Stato.

Nell’incredulità generale, quindi, il lieto fine c’è stato, è vero. Ma non bisogna trascurare la realtà che si cela dietro questo caso: in Pakistan – come in altri Paesi dell’area – la blasfemia può portare alla massima pena. Human Rights Watch ha stimato che, alla fine del 2017, nel braccio della morte pachistano ci fossero almeno 19 persone, più altre centinaia in attesa di verdetto. Il motivo? Per tutti lo stesso: avere, probabilmente, insultato Maometto. Che poi tale offesa consista nel bruciare un’icona in pubblica piazza, o bere per sbaglio dal bicchiere di un’altra donna, cambia davvero poco.

Quello su cui dobbiamo riflettere è come si può tacere in nome di fini “più alti”, di improbabili alleanze, davanti ad una situazione tragica come questa. Il silenzio di troppi, dall’Onu al Consiglio dei diritti umani di Ginevra che mai hanno perorato la sua causa. Le istituzioni europee che, ad eccezione del presidente del Parlamento Antonio Tajani, non si sono mai espresse sul caso. Per non parlare delle femministe, le quali avrebbero potuto lanciare un #metoo in nome di una giovane donna, che per nove lunghi anni ha “festeggiato” l’8 marzo all’interno di una cella senza finestre. Insomma, tante occasioni di fare la cosa giusta perse. Un silenzio complice, che peserà come un macigno sulle loro coscienze. Fortunatamente però, nelle storie a lieto fine, ci sono sempre degli eroi. In questo caso i tre giudici, che imperterriti hanno sfidato intere piazze, il premier pachistano Imran Khan, il quale li aveva solennemente avvertiti e minacciati: “Non sfidate lo Stato, non costringete lo Stato a compiere azioni estreme”, e tutti coloro che in nome della religione erano pronti a sacrificare una persona innocente.

Hanno salvato Asia, e lo hanno fatto con un capolavoro retorico, giustificando la loro decisione citando un testo del Corano: “L’Islam può tollerare qualsiasi cosa ma insegna la tolleranza zero per l’ingiustizia, l’oppressione e la violazione dei diritti di altri esseri umani. La libertà di religione è garantita dall’islam, che vieta la coercizione in materia di fede e credo”. Così facendo hanno isolato tutte quelle frange estremiste che gridavano alla morte per Asia Bibi brandendo come giustificazione il loro testo sacro.

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