Come si arrampicano sugli specchi gli editorialisti per giustificare Conte 2 e porti aperti

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Tanto di cappello. Nell’arco di un pugno di ore, fra il 18 e il 19 febbraio, i mass-media c.d. indipendenti sono stati in grado di offrire una visione globale, coerente e dotata di una grande forza persuasiva, tanto da risultare di per sé evidente; quanto all’argomentazione, o manca o è unilaterale. Mi riferisco sia alla serata del 18 su La7 (DiMartedì) e su RaiTre (Carta Bianca); sia alla mattinata seguente del 19 di Repubblica e del Corriere della Sera. Non intendo farne una ricostruzione completa, ma solo individuare alcune concordanze e reciproche integrazioni, tali da permettere anche al lettore che non ne sia al corrente, per non aver visto o letto, di farsi una opinione di quella che è stata la mia impressione, libero ovviamente di condividerla.

Comincio con l’intervista ad Eugenio Scalfari a DiMartedì, di cui devo invidiare la completa lucidità e la perfetta memoria alla vigilia del novantaseiesimo compleanno. Col suo ben noto stile del buon saggio antico, reso ancor più evidente dal richiamo costante al suo colloquio confidenziale con Francesco, il Papa, se n’è uscito con una battuta lapidaria, per cui l’unico governo idoneo per il nostro Paese rimarrebbe quello di una sinistra liberale. Non rivela esplicitamente quale sarebbe oggi, ma il suo autorevole collaboratore, Ezio Mauro, su la Repubblica del giorno dopo, “Il Paese in apnea”, ce lo dichiara chiaramente, traducendo la visione utopica di Scalfari – congegnata in chiave di clausola testamentaria – ad una interpretazione più realistica, costruita sull’oggi e non su un domani nebuloso: “Al centro dello schieramento c’è il Pd, come una moderna democrazia cristiana”.

Ecco fatto, non c’è bisogno di un partito di centro, dato che il Pd è in grado di aggregarlo e rappresentarlo, sì da potersi parlare di un centro-sinistra, che ha di fronte solo una destra, radicale e autoritaria. Non fa niente che l’attuale governo giallo-rosso sia quello più a sinistra dell’intera storia della Repubblica, non solo e non tanto per l’inclusione di Leu, quanto per la politica che persegue su tutti i fronti: giustizia, autonomia regionale, immigrazione, lavoro…

Che cosa comporta questo? Anzitutto, sul piano delle alleanze, un apprezzamento di Conte, che risulta – a stare alle parole di Scalfari, supportate dal costante riscontro positivo nei nostri mass-media e confortate dal consenso dei sondaggi – l’uomo giusto al posto giusto. Non c’è stato alcun voltafaccia, ma solo una scoperta tempestiva della deriva di destra guidata dalla Lega di Salvini. Non fa niente che tale scoperta sia esplosa all’improvviso, con una cattiveria salvifica, solo quando Salvini si è chiamato fuori; ma tant’è, ricordo ancora un autorevole collega che sosteneva che la linea da privilegiare è quella della incoerenza dell’individuo al servizio della coerenza del bene pubblico.

Da qui nasce e cresce il livore per il Ghino di Tacco del momento, cioè Renzi, che tale resta, anche se espresso col solito stile edulcorato degli auto-proclamatesi guardiani della Repubblica. Sul Corriere della Sera del 19 febbraio, Antonio Polito, sotto il titolo “Due Matteo in movimento”, fa il passo decisivo di accomunare Renzi e Salvini, perché “del leninismo condividono entrambi una visione dinamica, leaderista e giacobina, rivoluzionaria della lotta politica”. Beh male per Renzi, ma non per Salvini, che a questo punto avrebbe preso a riferimento non Mussolini, ma niente meno che Lenin, probabilmente reduce dalla lettura del “Che fare”. Ma soprattutto gli si dà atto del particolare, considerato scarsamente significativo, di avere un largo consenso nel Paese; mentre Renzi si gioca tutto all’interno del Palazzo.

Naturalmente all’insegna di una falsa lettura della Costituzione, si continua a sostenere imperterriti che il presidente della Repubblica sarebbe costretto a rispettare, perinde ac cadaver, qualsiasi maggioranza parlamentare. Non mi riferisco alla caduta libera nel consenso popolare della maggioranza giallo-rossa, quale testimoniata non dai sondaggi mai dai consolidati risultati delle elezioni regionali, nove su dieci a favore della destra. Bensì mi riferisco alla sua natura improvvisata, artificiosa, precaria, inidonea a governare, condannata al perenne rinvio. Mi dispiace per coloro che con riguardo a Mattarella al tempo stesso ne mitizzano il ruolo di supremo garante della stabilità democratica e lo sviliscono a mero notaio di qualsiasi ammucchiata parlamentare. Non è mai stato così in passato almeno nemmeno nella storia della Seconda Repubblica, a cominciare dallo sfacciato interventismo di Scalfaro; ma non è neppure oggi, perché la stabilità democratica è basata sulla tenuta operativa di una maggioranza qualificata da un minimo di omogeneità e sulla piena legittimazione di una opposizione, se pur non costruita a misura di quella che la stessa maggioranza considererebbe apoditticamente conforme a Costituzione.

L’ovvia conseguenza è la continua ossessiva prospettazione dell’emergere dei c.d. responsabili, fuoriusciti, ieri, da Italia Viva e, oggi, da Forza Italia, sì da rendere irrilevante l’apporto della stessa Italia Viva. Può essere, non c’è dubbio, che Romani e co. voglia ripetere la vicenda vissuta, prima, da Fini e, poi, da Alfano, che certo non hanno avuto un buon esito né politico né personale; ma per Romani e co. è del tutto giustificato, dato che lo fanno non per piacere loro ma per il piacere del Paese. Il problema non è loro, ma di una maggioranza, che, rendendolo irrilevante, espelle praticamente dal suo seno Renzi, senza contare almeno due cose. Anzitutto l’omino di Firenze raccimola pur sempre un quattro per cento, mentre Romani e co. sono per il momento a zero; e, senza quel quattro per cento, Pd, 5 Stelle e Leu sono ben sotto il quaranta per cento. Ma, poi, una volta eliminato Renzi, rimane il contrasto fra Pd e 5 Stelle, con l’interrogativo di quale ruolo giocheranno i c.d. responsabili, caduti da cavallo nella strada verso Damasco. Diventati, a loro volta, quelli che condizionano al Senato la tenuta dal Governo, avranno anche loro bisogno di darsi una identità nella contesa destinata a perpetuarsi fra Pd e 5 Stelle.

Che posizione prenderanno i nostri c.d. responsabili, veri e propri addetti al pronto soccorso, di fronte ad un paziente in codice rosso, come il governo giallo-rosso? Tanto per prendere a referente una partita decisiva quale quella dell’immigrazione, condivideranno la linea della abrogazione dei decreti sicurezza sic e simpliciter, promossa dalle sardine, ormai trasformato in interlocutore istituzionale, come non è mai successo per qualsiasi movimento precedente che non avesse avuto un conforto elettorale come i 5 Stelle; nonché condivisa da Leu e dalla parte più a sinistra dello stesso Pd? Oppure faranno propria la linea solo correttiva, nei limiti stretti delle osservazioni del presidente della Repubblica, tenuta ferma dai 5 Stelle?

Per ora su questa vicenda caldissima, perché alla base della propaganda salviniana, sì che risolverla ne sgonfierebbe la sua fidelizzazione elettorale, si è fatta poca strada; quella relativa alla presentazione due distinti decreti, con una distinzione del tema della sicurezza da quello dell’immigrazione, sì da sfatare l’idea leghista che l’immigrazione sia foriera di insicurezza. Ma dietro questo primo passo, che cosa c’è nella proposta del ministro degli interni, coperto da una prefetta volenterosa, assunta per depotenziare da politico a tecnico un ruolo assolutamente decisivo per un governo nato e mantenuto all’insegna dell’antisalvinismo? Bisognerebbe accogliere tutti a braccia aperte, siano tratti in salvo da gommoni che si sgonfiano a qualche chilometro dalla costa africana, Libia, Tunisia e Marocco che siano. La parte di salvatore la facciano le navi delle ong, impegnate in un andirivieni più frequente dei collegamenti con le nostre isole; o lo facciano le navi della nostra Guardia costiera, chiamate a supplire al silenzio o al diniego, più o meno motivato, di Malta rispetto alla zona di sua competenza.

Questo senza tener conto non solo dei barchini e barconi, ma, recentemente, anche dei motoscafi che arrivano per conto proprio, non si sa quanto aiutati dai c.d. mercanti di carne umana.

Bene e se i flussi, alimentati da questa incondizionata disponibilità, crescessero, nonostante l’auspicata stabilizzazione della Libia, cui ora si aggiungerebbe un blocco navale per il traffico marino di armi, col rischio temuto che venga utilizzato per salvare immigrati appena sotto costa? No, non dovrebbero crescere, chi sa perché no; e, comunque, oggi ci sarebbe una oliata procedura di ripartizione automatica con altri Paesi, fatta ancor prima dello sbarco, frutto della Dichiarazione di intenti di Malta, citatissima ma non sempre letta. Qui c’è scritta una eccezione al Trattato di Dublino, che rimane in vigore con quella sua disciplina che ha letteralmente soffocata l’Italia. Solo che questa eccezione consiste in una procedura fondata sull’adesione volontaria, a partire dai quattro Paesi firmatari (Francia, Germania, Italia, Malta), temporanea e limitata agli immigrati salvati da navi delle ong e della nostra Guardia costiera.

Dunque, al di là di chi spera che l’ondata non si riproduca, di una politica di un controllo dei flussi non se ne parla. La spiegazione sottesa c’è offerta da un articolo apparso sempre sul Corriere della Sera del 19 febbraio, “L’Europa si deve preparare a diventare multietnica”, a firma Antonio Armellini. Tutto nascerebbe dallo squilibrio demografico fra Africa ed Europa, rispettivamente in eccesso e in difetto, specie in Italia. L’Africa avrà, entro il 2050, un incremento di 400 milioni di nuovi arrivati, con un terzo non assorbibili sul proprio mercato del lavoro; l’Europa, di contro, avrà bisogno di accogliere questo terzo, pari a 133 milioni, con l’Italia interessata da alcune centinaia di milioni all’anno. Bene, a parlar chiaro ci si intende, certo dovrà essere gente specializzata, ma non solo, anche mano d’opera manuale. Ma non si dice alcunché su quale base dovrebbe essere assorbita questa ondata annuale, che, accumulandosi anno dopo anno, raggiungerebbe cifre da capogiro, con nessuna selezione prevista, né in partenza né all’arrivo. Sembra si dia per scontato che la specializzazione verrà realizzata nella stessa Africa; e che la gente specializzata abbandonerà la terra d’origine, pur in presenza di una preannunciata rivoluzione tecnologica che porterà quel continente a far concorrenza alle ex potenze coloniali.

Il solito scettico blu chiederà lumi aggiuntivi sul come effettuare l’integrazione. La risposta è del tutto rassicurante nel negativo, cioè non dovrà essere centralizzante come in Francia, dove ha prodotto l’inferno delle banlieues; né all’insegna della convivenza separata come in Inghilterra, dove ha creato delle “tribù”; né a misura di un solidarismo egualitario, che non ha tenuto di fronte al numero di emigrati, come Scandinavia. E in positivo? Beh, in positivo, ci si affida, pur senza ammetterlo, al genio italico, come sempre capace di galleggiare come un truciolo di sughero, anche in un mare in burrasca.

Il pranzo è servito. Tutti a tavola.

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