Dopo Quirinale e Sanremo, un Paese immobile, rassegnato e triste

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L’esito delle elezioni quirinalizie ci ha consegnato l’immagine di un Paese immobile, ingobbito, piegato su stesso e sulla necessità di preservare lo status quo. Al di là della solita entusiastica retorica nazional-popolare amplificata dalla kermesse canora appena conclusa, il quadro politico è piuttosto desolante, con partiti per lo più interessati al proprio piccolo “particulare” più che intenzionati a imprimere una svolta alla rotta oscurantista degli ultimi due anni. Invece, confermando l’attuale assetto per il timore che spostare anche una sola pedina avrebbe fatto crollare il castello, si è praticamente deciso di non decidere e congelare le posizioni. Non a caso, il più soddisfatto di questo epilogo è stato il ministro Speranza che ha salutato la rielezione del presidente Mattarella con un trionfalistico tweet. Insomma, i partiti, dilaniati come sono dalle divisioni interne e alle prese con coalizioni ormai sfilacciate, hanno deciso di non archiviare la stagione dell’emergenza che può servire a serrare ulteriormente i ranghi come dimostrano le mosse successive alla conclusione della corsa al Colle.

Infatti, l’attività del governo è ripresa con la proroga dell’obbligo di indossare la mascherina anche all’aperto fino al 10 febbraio. Una delle misure più assurde e anti-scientifiche ma che, nel corso dei mesi, ha assunto un valore quasi simbolico, come se fosse una sorte di ammonimento morale degno del contesto inquisitorio in cui siamo costretti. Peraltro, c’è chi non vuol sentire ragioni e si appresta a mantenere l’imposizione anche oltre la durata stabilita a livello nazionale. È il caso del presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, il pasdaran delle restrizioni, il più inflessibile tra gli inflessibili, il quale ha già dichiarato che sarà l’ultimo ad ammainare la bandiera dell’emergenza di cui la mascherina all’aperto è ormai il supremo vessillo.

Peraltro, questa gara a smarcarsi delle diverse regioni ha fatto esplodere un’altra grave criticità: la disgregazione territoriale con una confusione normativa senza precedenti, scatenata da una raffica di ordinanze sia regionali che comunali che hanno reso di fatto incerto il diritto designando il cittadino quale vittima sacrificale di questa furia più iconoclasta che sanitaria.

Per cui, al di là della magniloquenza dilagante che serve a confondere il cittadino soprattutto in questi tempi di dissimulazione e false verità a buon mercato, l’opera di ricostruzione si annuncia particolarmente gravosa, delicata e prolungata. Eppure, in assenza di un piano Marshall, si procede al buio avendo come stella cometa solo la granitica difesa del Green Pass, ora illimitato come i giga sullo smartphone per chi ha sacrificato il braccio per la terza volta, che si sta rivelando strumento sempre più vessatorio per chi lo possiede e sempre più discriminatorio per chi non ce l’ha; strumento odioso che produce situazioni paradossali e aberranti che sono state descritte in un recente articolo del Washington Post, rilanciato dal professore Steve H. Hanke con un eloquente tweet: “Sì, i fascisti sono tornati”. Commento che ha provocato la reazione un po’ scomposta del presidente dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, il quale ha trovato vergognoso paragonare la situazione attuale a quella di un secolo fa. Eppure dovrebbe sapere che qualsiasi sistema autoritario, sia di destra che di sinistra, può essere tacciato di “fascismo” quando incide così pesantemente su diritti e libertà individuali anche se non sono riprodotti fedelmente (e meno male!) schemi ed episodi consegnati alla storia. Piuttosto, avrebbe dovuto allertare un po’ tutti una censura così severa che giunge da uno stimato accademico americano il quale utilizza perfino la metafora della frusta per descrivere il trattamento poco edificante riservato ai renitenti all’iniezione. Tuttavia, nessuno sembra curarsene se non per mostrarsi indignato e respingere piccato le accuse.

A tutto ciò, segue la solita narrazione orwelliana in cui si afferma l’esatto contrario di quello che in realtà accade. “Il Paese riapre”, secondo l’informazione mainstream che va a ruota della comunicazione governativa. Al contrario, cinicamente si restringe ancor di più imponendo ulteriori sgradevoli distinzioni tra cittadini, perfino tra gli studenti a cominciare da quelli delle scuole elementari, sulla base delle scelte sanitarie certificate da quel codice QR che ormai serve anche per ritirare la pensione, comprare le mutande o, addirittura, accedere ai servizi funerari. Naturalmente, i governanti nemmeno si pongono il problema di indicare una data di scadenza per questo sistema a punti che premia i fedeli e mette in castigo i riottosi, con il rischio concreto che la carta verde possa diventare uno strumento ordinario, magari usato anche per altri tipi di tracciamento che renderanno l’apparato statale sempre più invasivo. Per cui, lo stato d’emergenza diventa l’equivalente dell’Hotel California degli Eagles: si può cercare una via d’uscita ma alla fine non lo si potrà mai abbandonare veramente. Altrimenti, si finisce risucchiati in un labirinto kubrickiano di regole e regolette senza possibilità di scampo.

Ma il Paese è troppo distratto, anzi anestetizzato dalla propaganda e ottenebrato dal Festivàl che viene seguito con la stessa attenzione con cui ci si dovrebbe preoccupare di altre vicende, per accorgersi delle assurdità che sono all’ordine del giorno. Piuttosto, lo spettacolo di corte serve da potente arma di distrazione di massa con cui si stende un’ulteriore patina di conformismo su una popolazione ormai rassegnata e arresa all’ineluttabile. Perciò, non serve nemmeno più far più finta di cambiare o muovere qualche pedina lasciando inalterati gli equilibri di potere. Tutto deve restare così com’è perché è il modo migliore per blindare i posti di comando. Nulla cambia perché nulla deve cambiare. Pensandoci bene, più che al Gattorpardo siamo arrivati alla definitiva restaurazione di una sorta di ancien régime. Per fortuna, ci sono le battutine di Fiorello ad allietare questo Paese che rimanda al titolo di un famoso romanzo di Osvaldo Soriano. Triste, solitario y final.

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