Elezioni in Nigeria: le difficoltà della prima potenza economica africana tra corruzione, tribalismo e jihadismo

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23 febbraio. In Nigeria sono aperti i seggi, 84 milioni di nigeriani sono chiamati a eleggere il capo dello stato e l’Assemblea nazionale. Il 9 marzo torneranno alle urne per scegliere i governatori e i Parlamenti dei 36 stati che compongono la federazione.

Le elezioni in realtà erano state fissate tutte per il 16 febbraio, ma la Commissione elettorale le ha rinviate adducendo motivi tecnici e logistici. Potrebbe sembrare un contrattempo di poco conto, trattandosi di un Paese africano. Nella Repubblica democratica del Congo, ad esempio, dove le presidenziali si sono svolte il 30 dicembre 2018, una serie di rinvii hanno portato a un ritardo di ben due anni e una settimana rispetto alla data prevista; e, in Eritrea, da quando nel 1993 il Paese è diventato indipendente dall’Etiopia non si è mai votato.

Solo che l’annuncio del rinvio è stato dato cinque ore prima dell’apertura dei seggi, quando già milioni di elettori avevano raggiunto i villaggi e le città nelle cui liste elettorali sono iscritti e molti erano già in fila, all’esterno dei seggi, in attesa che aprissero. Solo allora la Commissione elettorale si è resa conto di non poter garantire un voto regolare e corretto: ad esempio, perché gran parte del materiale elettorale non era stato recapitato; perché l’incendio, sicuramente doloso, di alcune sedi della Commissione aveva distrutto schede, urne e dispositivi di calcolo e trasmissione dei dati; perché dei seggi non si sarebbero potuti aprire per mancanza di personale; perché non in tutti i campi profughi del nord est, che ospitano decine di migliaia di persone fuggite dai territori minacciati dai jihadisti Boko Haram, erano stati allestiti dei seggi e non era stato previsto il trasporto a casa di decine di migliaia di sfollati affinché potessero votare.

Per capire la gravità di quanto è successo, bisogna considerare che la Nigeria non è un Paese devastato da anni di feroce guerra civile, come il Sudan del Sud o la Repubblica Centrafricana. Non è neanche un Paese in bancarotta come lo Zimbabwe, da quasi 20 anni in condizioni disperate; o, come la Somalia, affidato a un governo che non si preoccupa di rendere sicura neanche la propria capitale e deve la propria esistenza alla presenza di decine di migliaia di militari stranieri.

La Nigeria nel 1999, dopo decenni di colpi di stato militare e dittature, ha adottato il multipartitismo e istituzioni democratiche e da allora gode di una discreta stabilità politica. Produce ed esporta petrolio dal 1958, due anni prima dell’indipendenza dalla Gran Bretagna. Da anni è il maggiore produttore di petrolio del continente africano e dal 2014, anno in cui il suo Pil ha registrato una crescita del 7 per cento, ne è diventata la prima potenza economica superando il Sudafrica. Continua a esserlo nonostante che nel 2016 sia entrata in recessione, per la prima volta in 20 anni. Ci sono più miliardari in Nigeria che in tutto il resto dell’Africa e dal 2004 a oggi il numero dei milionari è cresciuto del 44 per cento. La Nigeria è anche il Paese africano più popoloso, con 196 milioni di abitanti, oltre il 60 per cento dei quali giovani di età inferiore a 25 anni, e uno degli stati dell’Africa occidentale che attraggono più emigranti.

In altre parole, la Nigeria ha i mezzi per dotare la propria Commissione elettorale dei fondi e di tutto ciò che serve per organizzare le elezioni e assicurarsi che siano “free and fair”, libere e corrette. Ma è anche uno dei Paesi più contaminati dalla corruzione, “a way of life”, come dicono i nigeriani, che pervade ogni aspetto della vita economica e sociale, inevitabile conseguenza del tribalismo che a sua volta se ne alimenta. Di per sé fattore critico, in Nigeria il tribalismo assume forme estreme, esasperate dall’appartenenza religiosa. Il nord è popolato da etnie Fulani e Hausa, tradizionalmente dedite alla pastorizia e di fede musulmana. Al sud vivono in prevalenza etnie di agricoltori Igbo e Yoruba di fede cristiana o animisti. Negli ultimi anni gli attacchi a scopo di razzia dei Fulani e le rappresaglie degli agricoltori derubati hanno fatto più vittime di Boko Haram. Ma la conflittualità tribale è presente anche nelle ricche regioni petrolifere del sud, dove tribù e clan si contendono i benefici derivanti dall’industria estrattiva. Prima le dittature militari, poi i governi democratici invece di provare ad attenuare le tensioni etniche e religiose ne hanno approfittato per assicurarsi consenso e voti.

Per la prima volta, da quando nel 1999 il paese ha completato la transizione democratica, i due candidati alla presidenza favoriti sono entrambi musulmani: Muhammadu Buhari, presidente in carica dal 2015, leader dell’Apc, All Progressive Congress, ex militare già presidente tra il 1983 e il 1985 grazie a un colpo di stato militare, originario del Katsina, uno dei 12 stati a maggioranza islamica che in violazione della Costituzione hanno adottato la shari’a, la legge coranica; e Atiku Abubakar, un tycoon nato nello stato orientale di Adamawa, comproprietario di una impresa di servizi petroliferi, per due volte eletto
vicepresidente, leader del Pdp, People’s Democratic Party.

Entrambi promettono una svolta, investimenti, crescita economica… Per Buhari è più difficile essere credibile. Nel 2015 aveva promesso lotta alla corruzione e la vittoria su Boko Haram. Ma la lotta alla corruzione si è risolta nella denuncia dei misfatti commessi durante gli anni in cui il partito di governo è stato il Pdp e nell’arresto di molti uomini ad esso legati. Quanto a Boko Haram, pochi mesi dopo aver assunto la carica, Buhari aveva dichiarato che i jihadisti erano “tecnicamente” sconfitti. Invece, dopo aver perso in effetti il controllo di alcune città e di estesi territori, Boko Haram si è riorganizzato. Da alcuni mesi ha intensificato gli attacchi e gli attentati creando decine di migliaia di nuovi sfollati e rifugiati. A questa evidenza Buhari contrappone il fatto, peraltro indiscutibile, che nei 15 anni in cui sono stati al governo, gli uomini del Pdp non hanno fatto meglio.

Il 22 febbraio, a poche ore dall’inizio delle operazioni di voto, la Commissione elettorale annunciava orgogliosamente, nel corso di una conferenza stampa, di aver “già” consegnato 72,8 milioni di schede, pari all’86,6 per cento del totale, e di aver organizzato dei convogli per portare migliaia di profughi a casa per il tempo necessario a votare, omettendo però di dire che i convogli sono stati mandati privi di scorta in territori pericolosi per la presenza di Boko Haram.

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