I passi falsi di Teheran, sempre più all’angolo, e gli imbarazzi europei

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Il blitz dei Pasdaran della scorsa settimana, il sequestro della petroliera britannica “Stena Impero” nelle acque dello Stretto di Hormuz, da un lato rappresenta un successo tattico, un siluro alla credibilità del sistema di vigilanza e sicurezza che gli Stati Uniti e i loro alleati stanno allestendo nel Golfo Persico, ma dall’altro potrebbe rivelarsi un passo falso. Rischia infatti di spingere Londra – che fino ad oggi è rimasta allineata agli altri due partner Ue del Jcpoa, Parigi e Berlino, che vorrebbero tenere in piedi l’accordo sul nucleare e salvaguardare così i rapporti commerciali con Teheran – a sostenere la strategia trumpiana delle sanzioni e della massima pressione contro il regime iraniano. E sta già mettendo in imbarazzo i suoi “amici” europei, che hanno dovuto sostenere le ragioni della Gran Bretagna e chiedere l’immediato rilascio della nave.

La libertà e la sicurezza della navigazione rappresentano una linea rossa che nessuno può permettersi di ignorare o sottovalutare. È grazie ad esse infatti che le risorse energetiche e le merci vengono scambiate e, in ultima analisi, che gira l’economia mondiale. Soprattutto in un collo di bottiglia senza alternative per le rotte commerciali com’è lo Stretto di Hormuz, nel Golfo Persico.

Dunque, le azioni dei Pasdaran rischiano di isolare ulteriormente l’Iran, dimostrando implicitamente che le accuse di avere una condotta da “stato canaglia” sono fondate. “Alla fine, il regime iraniano dovrà decidere se vuole comportarsi come una nazione normale”, ha dichiarato il segretario di stato Usa Mike Pompeo. “Se si decidono, siamo pronti a negoziare su un ampio spettro di temi senza precondizioni e spero lo facciano. Ma – ha aggiunto – non abbiamo visto ancora alcuna indicazione che siano pronti a cambiare in modo sostanziale il senso di marcia della loro nazione, a fare le cose che gli abbiamo chiesto di fare con il loro programma nucleare, il loro programma missilistico e il loro comportamento maligno in tutto il mondo”.

Ed è questo probabilmente il motivo per cui nell’amministrazione Trump finora è prevalsa la linea della cautela nelle risposte alle provocazioni iraniane di queste ultime settimane (attacchi o minacce ad altre petroliere, l’abbattimento di un drone Usa): si stanno infilando sempre più in un angolo con le loro stesse mani. Con il sequestro della “Stena Impero” Teheran ha preso una “strada pericolosa”, ha avvertito il ministro degli esteri britannico Jeremy Hunt, “comportandosi in modo illegale e destabilizzante a seguito della confisca legale a Gibilterra di petrolio destinato alla Siria”. “La nostra reazione sarà ponderata ma dura”, ha aggiunto minacciando “serie conseguenze” per quello che la responsabile della Difesa Mordaunt non ha esitato a definire “un atto ostile”. Londra sta considerando “una serie di opzioni”, ha dichiarato il sottosegretario Ellwood a Skynews, una delle quali, si vocifera, potrebbe essere il congelamento degli asset finanziari iraniani.

Insomma, le azioni aggressive dei Pasdaran nel Golfo potrebbero garantire a Washington un successo insperato, quello di spezzare l’asse degli alleati europei fino ad oggi benevoli con Teheran, portando dalla sua parte Londra, dove uno tra Boris Johnson e Jeremy Hunt prenderà questa settimana il posto della debole May, nessuno desideroso di seguire le sue orme. Anche Parigi, Berlino e Bruxelles, che stanno tenacemente perseguendo una politica di appeasement con il regime, potrebbero essere costrette a rivedere le loro posizioni alla luce di una escalation che minaccia le forniture globali di energia.

E la crisi esplode proprio nel momento in cui nelle capitali europee si discute di Instex, il veicolo costituito nei mesi scorsi proprio per iniziativa di Parigi, Berlino e Londra, oltre che Bruxelles naturalmente, per aggirare le sanzioni Usa e preservare i traffici con Teheran. Uno strumento ancora non decollato, perché inizialmente previsto per lo scambio di merci non sottoposte a sanzioni. Ma l’ipotesi dibattuta è quella di estendere il suo uso anche alle transazioni di idrocarburi. Addirittura, l’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza Ue Federica Mogherini e la sua consigliera Nathalie Tocci (dello IAI) hanno abbozzato l’idea di uno schema a tre, Ue-Russia-Iran: i prodotti energetici iraniani verrebbero acquistati da Mosca e poi girati all’interno del mercato Ue attraverso Instex, in cambio di prodotti europei. Il meccanismo sarebbe il baratto, in sintesi.

Basti pensare che alcune tipologie di transazioni sono ancora sotto lo scrutinio di tecnici e legali per verificare il rispetto delle norme antiriciclaggio per comprendere quanto sia grigia la zona nella quale l’Ue e alcuni suoi Paesi fondatori si stanno per compromettere pur di salvare un cattivo accordo, che ha permesso in questi anni all’Iran di destabilizzare la regione, garantirsi qualche affare, ma soprattutto fare un dispetto a Trump.

Ma come ha riportato giorni fa il Sole 24 Ore, alcuni stati membri, tra cui Italia e Polonia, si sarebbero messi di traverso, mentre via Financial Times il Ministero degli esteri russo ha già dato la sua disponibilità. Viene da sorridere amaramente nel constatare che coloro i quali mettono in guardia proprio in questi giorni l’Europa dall’influenza russa e addirittura chiedono “chiarimenti” al governo italiano sui rapporti con Mosca siano gli stessi che permettono a Putin di insinuarsi e giocare tra le divisioni interne all’Ue e tra Ue e Stati Uniti, che si tratti di Instex o Nord Stream 2.

È evidente che dietro il progetto Instex c’è la visione, o piuttosto l’illusione, di affrancare l’Europa dagli Stati Uniti. Ma qui torniamo al tema più volte trattato da Atlantico: l’Ue ha la forza per porsi come soggetto geopolitico autonomo e indipendente, o sganciarsi da Washington significa farsi attrarre dall’orbita cinese e russa, diventare la periferia dell’Eurasia?

Quanto accaduto nello Stretto di Hormuz era stra-annunciato.

Il sequestro della “Stena Impero” è chiaramente una rappresaglia per il caso della “Grace 1”, petroliera iraniana fermata il 4 luglio scorso a Gibilterra dalla marina britannica, con l’accusa di trasportare petrolio in Siria in violazione delle sanzioni dell’Unione europea. E guarda caso, proprio poche ore prima, venerdì, la Corte Suprema di Gibilterra aveva deciso che la “Grace 1” può essere trattenuta per un altro mese. La spiegazione del portavoce del Consiglio dei Guardiani, Abbas Ali Kadkhodaei – “la regola dell’azione reciproca è riconosciuta dalla legge internazionale” – è una rivendicazione e contraddice la versione di altre autorità iraniane secondo cui la petroliera britannica avrebbe violato le norme della navigazione provocando un incidente con un peschereccio.

Una rappresaglia che gli iraniani avevano già cercato di mettere a segno qualche giorno fa, l’11 luglio, quando tre unità della Guardia rivoluzionaria avevano tentato di ostacolare il passaggio di una nave commerciale, la “British Heritage”, sempre attraverso lo Stretto di Hormuz, venendo però respinte dalla fregata britannica “Montrose”.

Stavolta gli iraniani sono stati più rapidi, cogliendo di sorpresa navi, aerei, droni e satelliti – insomma tutto il dispositivo di sicurezza che gli Stati Uniti con i loro alleati hanno dispiegato e stanno cercando di rafforzare nel Golfo Persico per proteggere le rotte commerciali dalle minacce di Teheran. Per questo il blitz è un successo tattico, uno smacco per il governo e la marina di Sua Maestà, che si sono dimostrati impreparati a proteggere le loro navi dalla più che prevedibile reazione di Teheran, e un siluro alla credibilità della deterrenza americana.

Il sequestro è avvenuto anche poche ore dopo l’annuncio del ritorno di militari americani su territorio saudita dopo un’assenza durata 16 anni. È dal 2003 infatti che non sono più presenti forze Usa in Arabia Saudita, dopo una permanenza che durava da 12 anni, dalla prima guerra del Golfo nel 1991. Re Salman, ha fatto sapere il Ministero della difesa, ha deciso di ospitare forze statunitensi nel Regno “per aumentare il livello di cooperazione congiunta a difesa della sicurezza e della stabilità regionale”. Una mossa che sembra porre le basi per la costituzione del nucleo di quella che Washington vorrebbe diventasse la cosiddetta “Nato Araba”, a cui affidare in prospettiva la sicurezza del Medio Oriente, in funzione in primis anti-ayatollah.

Ma al di là di queste motivazioni contingenti, la leadership iraniana aveva già avvertito che se non avesse potuto esportare il suo petrolio, allora non avrebbe permesso di trasportare quello altrui attraverso lo Stretto di Hormuz. Come reagiranno alla messa in pratica di questa minaccia i molti “amici” degli ayatollah in Europa? Faranno i conti con la realtà di uno “stato canaglia”, o come non è da escludere continueranno a sostenere che i responsabili dell’escalation sono in realtà gli Stati Uniti, che hanno stretto in un angolo il regime?

In realtà, come ha ribadito Pompeo, l’alternativa per Teheran c’è e si chiama tornare al tavolo del negoziato sul nucleare e sul programma missilistico, comportarsi da “nazione normale”, cessare “le attività maligne e destabilizzanti” in Medio Oriente.

Nei giorni scorsi il ministro degli esteri iraniano Zarif, architetto dell’accordo del 2015, ha fatto una timida apertura, proponendo il rafforzamento dei controlli sul programma nucleare in cambio del ritiro delle sanzioni Usa. Troppo poco, e solo una minestra riscaldata, essendo tali controlli già previsti, in teoria, dall’intesa. Che, è bene ricordarlo, non ha lo status di trattato internazionale. In ogni caso, Teheran ha in mano il suo destino, così come l’Europa, che su questo dossier si gioca ancora una volta la faccia.

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