Il dossier Spygate potrebbe essere la polizza di assicurazione che permette a Conte di tenere buono Renzi

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“La mossa del cavallo” è il titolo dell’ultimo libro di Matteo Renzi, che dovrebbe uscire a giugno. In copertina, lo splendido gruppo scultoreo del Bernini che ritrae Enea mentre porta in salvo il vecchio padre Anchise. Non si capisce bene quale sia il messaggio, se Renzi ci viene suggerito nei panni di Enea o di Anchise (o forse del piccolo Ascanio?). Comunque sia, la “mossa” dell’ex premier che presumibilmente verrà spiegata nel libro è quella che ha dato vita, nell’agosto scorso, al secondo governo Conte, scongiurando i “pieni poteri” a Matteo Salvini. Posso immaginare cosa state pensando: sì, in effetti, c’è dell’ironia in politica come nella vita, i “pieni poteri” Renzi li ha consegnati a Conte, che se li è presi ben volentieri. Ma non ci riferiamo solo alla gestione dell’emergenza coronavirus.

Il fatto è che in molti, compreso chi scrive, pensavamo che con la sua spregiudicata mossa l’ex premier, tornato al centro della scena, avrebbe tenuto sotto scacco l’Esecutivo, diventando ben presto il dominus della maggioranza. Ebbene, il tentativo è senz’altro questo, ma l’esito ben lontano.

Renzi ha ottenuto conferme importanti di suoi uomini ai vertici delle aziende di stato, come in questi giorni qualche “segnale” sulle policy, ma ha dovuto ingoiare la riforma, o meglio cancellazione della prescrizione (il “fine processo mai”) ed è ancora sottorappresentato nella compagine governativa.

Ma quel che è peggio, ai suoi penultimatum fingono di credere soltanto i giornali per vendere qualche copia in più. Come spiega Davide Rossi nel suo articolo di oggi, alle sue minacce, così come alle promesse, non crede più nessuno. Per un fatto evidentemente politico: non può permettersi, facendo cadere questo governo, di rischiare il ritorno alle urne. Ma dev’esserci qualcos’altro, se nonostante lo scenario del voto anticipato sia al momento precluso dall’emergenza coronavirus, Renzi non stacca la spina – e nemmeno osa avvicinarsi.

Intervendo ieri mattina al Senato in dichiarazione di voto sulle mozioni di sfiducia contro il ministro Bonafede, Renzi ha riconosciuto al centrodestra e alla senatrice Bonino di aver posto dei “temi veri”, ma ha spiegato di non poter votare la sfiducia per “motivi politici”, ovvero perché Conte ha lasciato intendere che una sfiducia a Bonafede avrebbe messo fine al governo da lui presieduto.

“Il presidente del Consiglio dei ministri ha detto con chiarezza che, ove vi fosse stato un voto, di una parte della maggioranza, contrario all’operato del ministro o favorevole alla mozione di sfiducia, egli ne avrebbe tratto le conseguenze politiche. Quando parla il presidente del Consiglio, si rispetta istituzionalmente e si ascolta politicamente”.

Queste le parole di Renzi. Ancora più esplicito Davide Faraone, capogruppo di Italia Viva al Senato: è stato “un voto sulla prosecuzione del governo, se avessimo votato solo sul ministro avremmo fatto scelte diverse”.

Una possibile spiegazione è che non sia riuscito all’ex premier di tenere in scacco l’Esecutivo con i suoi voti in Senato. Certo, per quieto vivere nella maggioranza qualche contentino gli si concede, ma il punto è che nessuno sembra credere che il leader di Italia Viva abbia intenzione di tirare troppo la corda. E se fosse Conte a “tenere per le palle” Renzi?

Ieri Repubblica riportava che i renziani, “secondo Palazzo Chigi”, avrebbero richiesto per Ettore Rosato il posto da sottosegretario con delega ai servizi. Delega che però il premier non ha alcuna intenzione di cedere. Ha già resistito alle polemiche seguite alla visita di Barr e Durham lo scorso autunno e alle pressioni del Pd, figurarsi se accetterebbe di regalarla a Renzi… “Soprattutto con la tempesta atlantica in arrivo”, ha osservato su Twitter Maria Antonietta Calabrò, la quale per Huffington Post, tra le sfide del nuovo direttore dell’Aise Caravelli ne ha citata anche una “politica”, l’accelerazione dello Spygate, che “potrebbe coinvolgere alcuni esponenti politici italiani”.

Proprio la collaborazione sullo Spygate chiesta l’estate scorsa dall’amministrazione Usa potrebbe essersi rivelata un insperato colpo di fortuna per il premier Conte, che della gestione di un dossier così scottante avrebbe fatto una polizza di assicurazione contro le manovre di Renzi, dal quale ieri in Senato ha incassato una sorta di giuramento di lealtà istituzionale, un serrate i ranghi da ex premier a premier: “Chi di noi si ritiene un patriota istituzionale, chi di noi crede alla ragion di Stato, rispetta ciò che dice il presidente del Consiglio”.

Stiamo entrando in un’estate calda, anzi rovente, a Washington per quanto riguarda l’indagine del procuratore Durham sulle origini del Russiagate, su quello “schema di eventi” per sabotare prima il candidato, poi il presidente Trump. Ed è chiaro che se un coinvolgimento italiano dovesse essere provato, questo chiamerebbe in causa i governi italiani dell’epoca, Renzi e Gentiloni. Un’allusione al ruolo del nostro Paese è stata fatta anche dal presidente Trump e abbiamo trattato diffusamente il tema nel nostro speciale: tutte le strade del Russiagate sembrano portare a Roma, tutti i principali filoni – l’incontro Mifsud-Papadopoulos, il dossier Steele, il caso EyePyramid – partono da o passano per Roma.

Ricordiamo gli incontri con i vertici dei nostri servizi dell’Attorney General William Barr il 15 agosto scorso, e di Barr e Durham il 29 settembre. Poi, a inizio ottobre, la visita del direttore della Cia Gina Haspel. Non sappiamo con precisione quale siano state esattamente le richieste americane e quale il livello di collaborazione accordato dal premier e dalla nostra intelligence. Poco o nulla, a sentire Conte e fonti dei servizi.

Fatto sta che pochi giorni dopo apprendevamo dai media Usa che l’indagine di Durham era stata ampliata per uomini, mezzi e arco temporale sotto esame, ma soprattutto era diventata ufficialmente un’inchiesta penale, proprio sulla base degli elementi raccolti a Roma.

Il procuratore generale Barr ha più volte affermato che il lavoro di Durham si sta concentrando su “potenziali crimini” e che se il Dipartimento di Giustizia riterrà di poterli provare, i responsabili saranno perseguiti. Non è chiaro se il lavoro di Durham terminerà con un rapporto come quello del procuratore speciale Mueller, ma la natura penale dell’inchiesta e le dichiarazioni molto impegnative di Barr fanno supporre che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi potrebbero arrivare citazioni di testimoni e incriminazioni.

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