Il potere logora chi non ce l’ha? Al governo giallorosso accadrà il contrario

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A proposito della campagna umbra Pd/5Stelle si potrebbe riprendere una famosa citazione omerica, per cui gli dei accecano coloro che vogliono perdere. Anche se qui gli dei non c’entrano per niente, ma i protagonisti hanno fatto tutto da soli, come quei generali che a fronte di una battaglia decisiva scelgono di scendere in campo su terreni del tutto favorevoli ai loro avversari, sì da auto-condannarsi ad una sicura sconfitta. Che le elezioni nelle terre di San Francesco fossero pregiudicate in partenza lo dicevano molti fatti, a cominciare dall’esser ormai per più del 60 per cento amministrate dal centro-destra, per poi continuare con la defenestrazione della giunta regionale a guida Pd, per una gestione diciamo partitica della Sanità, attivata addirittura su iniziativa degli stessi 5Stelle. Tanto più che non c’era proprio da contare su una partenza brillante dell’alleanza 5Stelle/Pd, con la tormentata gestazione di una manovra finanziaria, accompagnata dalla confusa e scoordinata prospettazione di una pioggia di micro-tasse. Perché, dunque, scegliere proprio l’Umbria come sede di sperimentazione della tenuta periferica della formula di Governo, che solo se fosse stata positiva, avrebbe potuto essere generalizzata, in vista di una sequenza di elezioni regionali destinate a svolgersi nel nuovo anno? La risposta potrebbe trovarsi proprio nelle figure politiche che hanno caldeggiato e realizzato questa avventura, cioè Franceschini e Di Maio, certo per ragioni per nulla coincidenti.

Franceschini, che è stato l’anticipatore della formula nazionale, acquisendo un ruolo assolutamente centrale, sì da divenire capo-delegazione della presenza pidiessina nell’attuale Governo, ne vedeva la soluzione alla problematica strategica della costituzione di un blocco alternativo al centro-destra. Da bravo erede del pragmatismo democristiano, riteneva del tutto superata la prospettiva caldeggiata dal segretario del partito, se pur ormai per inerzia, di una vocazione maggioritaria del Pd, condannato a viaggiare al meglio fra il 20 e il 25 per cento; e temeva che l’auspicata seconda gamba del centro-sinistra, a copertura di un elettorato moderato, potesse nascere assai più facilmente da una costola dello stesso Pd, come in effetti avvenuto con la nascita di Italia viva. Quindi era necessaria una accelerazione, a cominciare dalla prima occasione, quale quella costituita dall’Umbria, perché, anche a costo di una sconfitta, si radicasse territorialmente l’alleanza giallo-verde, creando una specie di soluzione obbligata in vista delle pur lontane elezioni politiche.

A sua volta Di Maio, era proteso a confermare il suo ruolo di capo politico dei 5Stelle, insidiato da un Presidente del Consiglio sempre più convinto di essere il nuovo Prodi, capace di trasformare il movimento in partito, sì da renderlo strutturalmente omogeneo al Pd. E, dunque, aveva bisogno di un successo personale sia pur relativo, imputandosi in prima persona la parte di anti-Salvini.

Entrambi i nostri personaggi contavano non su una vittoria, ma su un significativo contenimento della deriva di destra, tale da giustificare la continuazione della alleanza, sia pur con una differenza sostanziale. Mentre Franceschini già sembrava ragionare nei termini si una programmazione delle scadenze elettorali del 2020, con la scelta anticipata dei candidati presidenti, targati volta a volta Pd e 5Stelle; Di Maio continuava a ritenere praticabile solo la convergenza caso per caso su candidati civici.

La sconfitta era data per molto probabile, ma non la sua misura, che come era facile aspettarsi ha colpito assai più duramente i 5Stelle che il Pd, in ragione del loro ben diverso radicamento territoriale e ideologico. Il fatto è che c’è stata una conferma della grave sottovalutazione dell’allergia della gente nei confronti dell’operazione messa in atto nelle ferie agostane. Si etichettava come un suicidio perfetto quello compiuto da Salvini, prevedendo un suo progressivo svuotamento in base al significativo calo subito nei giorni successivi. Ma, oggi, si comincia a pensare che se pur dettato non dal ragionamento ma dall’intuito politico e aiutato da un pizzico di fortuna, sia stato un gesto azzeccato, guadagnando per sé un amplissimo spazio per fare opposizione ad un Governo assuntosi l’onere di gestire una situazione economico-finanziaria destinata al meglio a non peggiorare.

La sottovalutazione è derivata dalla presunta credibilità delle giustificazioni addotte per evitare le elezioni politiche anticipate. La prima brandita da Renzi, di dover bloccare l’operatività della clausola di salvaguardia relativa all’Iva, si è ben presto rivelata una macroscopica bugia, con la costituzione di Italia Viva. Il che ha reso di tutta evidenza che il nostro fiorentino voleva salvare i suoi gruppi parlamentari, per poter realizzare la scissione, con la duplice conseguenza di caratterizzare il Pd ancor più a sinistra e di aprire una guerriglia destabilizzante alla stessa azione di Governo. La conseguenza è stata quella di una difesa senza eccezione alcuna dell’Iva esistente, anche quando una sua modulazione avrebbe potuto restituire risorse per altri interventi. Questo, peraltro, senza alcuna rendita elettorale, perché una tassa che non cresce è assai meno percepita di una che colpisce persone o categorie particolari.

La seconda giustificazione, ribadita ossessivamente dalla stampa e dalla Tv simpatetica alla sinistra, è stata la demonizzazione di una destra a egemonia leghista, tentata da una avventura autoritaria, di cui, però, non si spiegava assolutamente la dinamica, facendone così una qual sorta di minaccia oscura capace di spaventare, per una presunta tendenza para-fascista dell’italica progenie. Ora, a ragionar di testa e non di pancia, il combatterla a tamburo battente, evocando continuamente come presente un passato lontano, se ci fosse stata, avrebbe potuto solo rinforzarla; se non ci fosse stata, sarebbe riuscita strabordante, come è successo in effetti.

Nessuna delle ragioni addotte per non andare a votare, fino al punto di mettere insieme due forze politiche che avevano fatto di tutto non solo per distinguersi, ma per combattersi acremente, con una discontinuità negata platealmente dalla permanenza dello stesso Presidente del Consiglio e dalla perpetuazione delle due riforme caratterizzanti il precedente Governo giallo-verde, reddito di cittadinanza e quota cento; nessuna delle ragioni è servita ad occultare quella che è parsa, come una manovra di Palazzo, intesa a salvare i gruppi parlamentari dei 5Stelle e del Pd, destinati altrimenti ad essere più o meno fortemente rimescolati e ridimensionati.

Durare per altri due anni e mezzo solo per evitare la nomina di un Presidente della Repubblica sovranista? Ma, anche a riuscirci, così si avrà un Presidente della Repubblica eletto da un Parlamento doppiamente delegittimato, perché scelto da quello attuale e non da quello ridimensionato; e, comunque, non rappresentativo del paese reale.

La lezione che se ne ricava è che i due potenziali elettorati del Pd e dei 5Stelle non sono componibili, nel senso di essere non tanto sovrapponibili, quanto parzialmente alternativi. Se il Pd, proprio perché squilibrato a sinistra, riesce a tenere il suo nocciolo duro, senza peraltro esercitare alcun richiamo al centro; i 5Stelle, catalizzatori di un movimento anti-istituzionale traversale, alleandosi ad un partito di sistema, prima la Lega poi al Pd, perde su entrambi i versanti, nonché soprattutto sull’astensione.

È fin troppo facile prevedere che la prossima incalzante frequenza delle elezioni regionali sarà una autentica via crucis per la coalizione giallo-rossa, certo per i 5Stelle, ma anche per il Pd, sfidato nelle residue regioni rosse, Emilia-Romagna, Toscana, Marche, dove la battaglia si svolgerà proprio in quel centro che pare essergli sfuggito di mano.

Il futuro prossimo venturo ci dirà se era meglio votare, lasciando che il centro-destra gestisse la situazione critica che la stessa Lega aveva contribuito a creare. Perché non è sempre vero come diceva Andreotti che il potere logora chi non c’è l’ha; spesso vale il contrario, come dovrebbe dedursi dalla lezione della nostra seconda Repubblica.

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