Imboscata a Zelensky: i russi in Ucraina per restarci. Successo di Putin con la benedizione di Macron e Merkel

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Il vertice a quattro svoltosi a Parigi lunedì scorso tra i massimi mandatari di Francia, Germania, Russia e Ucraina e convocato per ridurre le distanze verso una soluzione definitiva al conflitto del Donbass, si è concluso con un accordo minimo sul cessate il fuoco e lo scambio di prigionieri. Quanto basta all’anfitrione Emmanuel Macron per dichiararlo un successo, ad Angela Merkel per scongiurare eventuali ricadute sul Nord Stream 2 e a Vladimir Putin per sfoggiare un eloquente sorriso alla fine della riunione, dopo aver assicurato le posizioni russe in territorio ucraino. Nonostante le dichiarazioni improntate all’ottimismo di Zelens’kyj, invece, Kiev esce dall’incontro con le ossa rotte e senza una prospettiva chiara in termini di indipendenza politica e sicurezza dei confini. Per capire perché, facciamo un passo indietro.

Il Donbass è il nome con cui si conoscono comunemente due province dell’Ucraina orientale confinanti con la Russia: Luhansk e Donetsk. Nel marzo del 2014, dopo l’annessione della Crimea da parte di Putin, gruppi secessionisti appoggiati da Mosca insorgono contro il governo centrale (in pieno Euromaidan) e alcune settimane dopo dichiarano l’indipendenza di una porzione significativa di territorio. Le auto-proclamate repubbliche popolari non ottengono nessun riconoscimento internazionale. Ne segue un conflitto tra milizie pro-russe ed esercito ucraino che prosegue fino ad oggi con un bilancio provvisorio di 13.000 vittime e un gran numero di rifugiati.

I cosiddetti accordi di Minsk, firmati tra il settembre 2014 e il febbraio 2015, stabiliscono una road map piuttosto generica, orientata a un cessate il fuoco, a un ritiro graduale delle truppe e a un ristabilimento dei confini, senza peraltro definire tempi e modalità della pacificazione. E infatti il conflitto continua.

Nel 2016, su iniziativa dell’allora ministro degli esteri tedesco, viene lanciata sul tavolo della trattativa la cosiddetta formula Steinmeier, una versione semplificata degli accordi di Minsk che prova a dare una sequenza temporale alle azioni dei contendenti. Si prevedono elezioni nei territori in mano ai separatisti, da svolgersi secondo la legge ucraina e sotto la supervisione dell’OSCE. In caso di voto regolare, il passo successivo sarà la concessione di uno statuto speciale di autogoverno per le province ribelli. Nonostante l’opposizione interna delle forze nazionaliste e non solo, che vedono nella formula Steinmeier le premesse di una inaccettabile cessione di sovranità e una resa allo status quo imposto da Mosca, Zelens’kyj annuncia all’inizio di ottobre la firma della proposta. Il vertice di Parigi è il passo seguente in questo iter politico-diplomatico.

Ma qui cominciano (anzi, continuano) i problemi per il presidente ucraino. A Parigi infatti non si è parlato né di elezioni né di recupero del controllo di Kiev sul confine conteso. Non sono questioni secondarie, visto che è proprio su questi aspetti dell’accordo che Zelens’kyj si gioca la propria credibilità interna. L’ex attore ha interpretato correttamente la stanchezza del Paese per una guerra imposta dall’esterno e ha fatto della fine delle ostilità l’obiettivo della prima fase del suo mandato. Ma allo stesso tempo ha probabilmente sottovalutato il sentimento patriottico non solo della destra nazionalista ma della sua stessa base, difficilmente disposta a concessioni e ancor meno a capitolazioni a favore dell’ingombrante vicino. Per calmare le acque il presidente ha fornito un’interpretazione restrittiva della formula Steinmeier, secondo cui le elezioni si svolgerebbero solo dopo la ritirata delle truppe russe dai territori contesi. Inutile dire che la versione di Mosca è esattamente opposta: “Prima le elezioni e poi il ritiro”, ha ricordato Putin a margine del vertice, “basta leggere gli accordi di Minsk”.

Quel che è successo a Parigi sa un po’ di imboscata per Zelens’kyj, con un accordo a tre (Francia, Germania e Russia) sulle elezioni e lo statuto del Donbass deciso prima della riunione formale tra i capi di stato e di governo e consegnato già precotto al presidente ucraino. Adesso il problema sarà come presentarlo all’opinione pubblica del suo Paese, a partire proprio da quella legge sulla “reintegrazione del Donbass” che dovrà essere emendata nel mese di dicembre dalla Rada di Kiev: in quell’occasione si misurerà la validità dell’interpretazione presidenziale della formula Steinmeier.

Da qui il sorriso di Putin e la frustrazione (per quanto dissimulata) di Zelens’kyj. La Russia ha le chiavi del conflitto e non le cederà, complice anche la pretesa macroniana di attrarre Mosca verso il suo “progetto europeo”. Tanto è vero che il Cremlino si è spinto fino a richiedere espressamente la modifica della costituzione ucraina con il riconoscimento dell’autonomia dei territori ribelli. In cambio l’Ucraina ottiene soltanto uno scambio di prigionieri il cui massimo beneficiario è ancora una volta Mosca e un cessate il fuoco la cui tenuta sarà tutta da verificare. Nel giorno del vertice altri tre soldati dell’esercito ucraino sono stati uccisi in combattimento mentre il ministero degli interni russo annunciava l’avvenuta concessione del passaporto nazionale a 125.000 residenti dell’area del Donbass. Putin russifica, l’Europa tace e acconsente.

I risultati del conflitto prolungato e della diplomazia putiniana sono evidenti: il parlamento di Kiev finirà per ratificare la creazione di una doppia enclave di fatto controllata da Mosca nell’Est del Paese, una sorta di “bosnizzazione” dell’Ucraina che ne bloccherà qualsiasi iniziativa sul fronte orientale; il processo di integrazione nell’Unione europea e nella Nato è al momento completamente fermo e non se ne prevede una riattivazione a medio termine; la prospettiva di un’ennesima crisi politica interna in seguito agli accordi di pace non è da escludere, vista la debolezza della posizione presidenziale e le pressioni dei gruppi nazionalisti; infine, il cessate il fuoco fa comodo soprattutto a Putin, alle prese con una crisi economica che ne sta intaccando la popolarità.

Mentre Macron si illude di europeizzare il Cremlino e Merkel non distoglie lo sguardo dalle forniture del gas, suprema arma di ricatto di Mosca, Putin continua la sua campagna geo-strategica e propagandistica contro l’Occidente liberale: l’Ucraina è un tassello decisivo in questo scenario da guerra fredda 2.0. A Washington qualcuno è attento ma l’Europa sembra proprio non capire che quel che interessa al leader russo non è il controllo del Donbass ma la riconquista di Kiev.

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