In Africa il coronavirus rischia di aggiungersi ad altre epidemie già in corso e conflitti irrisolti

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Quasi subito, all’annuncio dei primi casi di coronavirus oltre i confini cinesi, il pensiero è andato all’Africa, ai fitti rapporti economici che intrattiene con la Cina, al rischio che il virus vi si diffonda aprendo nel continente una nuova crisi sanitaria. Il 6 febbraio l’agenzia di stampa Onu The New Humanitarian ha pubblicato un articolo della giornalista freelance di origine cinese, April Zhou, residente a Nairobi, Kenya, dal titolo: “Pronti o no? L’Africa e il coronavirus” che esordisce spiegando che l’epidemia crea forte preoccupazione in Paesi come il Kenya che hanno stretti rapporti commerciali con la Cina e dispongono di un sistema sanitario e di controllo limitato.

Molti stati africani hanno reagito bloccando i voli verso la Cina e annunciando piani d’emergenza più che altro intesi a controllare gli ingressi. “Il vero test di efficienza – ha però ammesso il ministro kenyano della sanità Sicily Kariuki – si avrà quando il virus si diffonderà nel Paese”. Richiesto di un parere, il rappresentante dell’Oms in Kenya Rudolph Eggers ha risposto: “Il sistema sanitario ne sarà travolto? Non lo so. Può succedere”.

Sempre da Nairobi, la corrispondente della Bbc Anne Soy il 7 febbraio ha inviato un reportage intitolato “Coronavirus: i Paesi africani sono pronti?”. L’articolo dà voce alla preoccupazione di Michael Yao, direttore delle operazioni di emergenza dell’Oms in Africa: “Anche se alcuni Paesi hanno qualche risorsa per affrontare il virus, sappiamo quanto siano fragili i sistemi sanitari in Africa, già sopraffatti da molte epidemie in corso. Perciò riteniamo essenziale individuare i casi quanto prima per poter prevenire la diffusione del virus”. Il direttore generale dell’Oms, l’etiope Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha spiegato che l’agenzia delle Nazioni Unite il 30 gennaio ha dichiarato il virus emergenza sanitaria internazionale soprattutto per il timore che i Paesi più poveri e in particolare quelli africani non siano in grado di far fronte all’epidemia: “Il motivo principale che ci ha spinto a dichiarare l’emergenza globale non è ciò che sta succedendo in Cina, ma in altri Paesi. La nostra maggiore preoccupazione è la possibilità che il virus raggiunga stati con sistemi sanitari deboli”.  

In effetti, la domanda corretta non è se i governi africani sono in grado di affrontare una nuova epidemia, bensì se è in grado di farlo la comunità internazionale, il che vuol dire l’Oms e i suoi partner e, quindi, i loro maggiori finanziatori che sono i Paesi industrializzati occidentali: Stati Uniti, Paesi europei, Unione europea e alcuni altri donatori minori.

In Africa è sempre necessario l’intervento internazionale per risolvere o almeno contenere le emergenze sanitarie. La diffusione di malaria, tubercolosi e Hiv è stata rallentata, le vittime dimezzate grazie alle risorse messe a disposizione da enti pubblici e privati stranieri. Negli anni ’90 del secolo scorso, la campagna di vaccinazione contro la poliomielite ha raggiunto centinaia di milioni di bambini africani con il risultato di sconfiggerla quasi del tutto. Quella contro la meningite A, condotta all’inizio di questo secolo in 16 stati, grazie alla vaccinazione di oltre 220 milioni di persone ha portato nel 2013 alla registrazione di quattro casi soltanto, mentre prima ogni anno i casi erano centinaia di migliaia e decine di migliaia i morti. Ebola nel 2015 è stato debellato in Liberia, Guinea Conakry e Sierra Leone, dopo aver fatto oltre 10.000 morti, solo perché l’Oms e Medici senza frontiere hanno combattuto il virus strenuamente. All’epoca la Sierra Leone disponeva di un medico ogni 50.000 abitanti, la Liberia ne aveva uno ogni 100.000, la Guinea dieci. Da allora la situazione non è cambiata molto e nessuna emergenza, come sempre ammonisce l’Oms, è mai del tutto risolta e, anzi, minaccia di ripresentarsi non appena si lascia ai governi locali la gestione ordinaria dell’apparato sanitario.

Al di là dell’assistenza continua alla quale collaborano decine di migliaia di associazioni laiche e religiose, l’Oms attualmente è impegnata su diversi fronti di crisi. Uno è il tentativo di circoscrivere una epidemia di Ebola scoppiata nell’agosto del 2018 nell’est della Repubblica democratica del Congo. Le condizioni particolarmente avverse in cui opera il personale sanitario non hanno consentito di avere ragione del virus, anche se la somministrazione, per la prima volta, di un vaccino finora ha limitato a 2.244 i decessi. Un’altra malattia ha effetti inaspettatamente più drammatici. Il morbillo, che sembrava quasi sradicato, torna a uccidere in Africa. Nel solo Congo nel 2019 sono morte più di 6.000 persone, per lo più bambini sotto i cinque anni. L’Oms ne ha già vaccinati 18 milioni. Ma c’è bisogno di raggiungere anche quelli di età superiore e per farlo occorrono almeno 40 milioni di dollari fuori bilancio.

In Africa le crisi, non solo sanitarie, sono tante, spesso prolungate, ricorrenti, irrisolvibili e l’intervento della comunità internazionale, che in origine andava sotto la voce “cooperazione d’emergenza”, ma da tempo figura sotto quella di “aiuti umanitari”,  è sempre necessario, decisivo: che si tratti di contrastare la jihad, provvedere al crescente numero di profughi, comporre conflitti politici o etnici cercando di convincere i contendenti a deporre le armi e negoziare. Il Sudan del Sud, nel 2011 reso indipendente e sottratto alla morsa mortale del nord dominato da islamici di origine araba, ha vissuto in relativa pace per due anni soltanto, dopo l’indipendenza; ma dal 2013 è dilaniato da un conflitto politico, attizzato da tribalismo e corruzione. La Somalia è in crisi dal 1991, la Repubblica Centrafricana dal 2012, il Darfur, in Sudan, dal 2003. I gruppi jihadisti respinti si ritirano, però si riorganizzano e tornano a combattere, conquistano nuovi territori. Gli al Shabaab dalla Somalia sono penetrati in Kenya, Tanzania e ora militano ancora più a sud, in Mozambico. Boko Haram, in Nigeria, ricacciato in foresta nel 2015, quasi sconfitto, sta creando addirittura un proto stato sulle rive del lago Ciad. L’interrogativo è: fino a quando la comunità internazionale sarà in grado e disposta a sostituirsi a governi e popolazioni inerti, impreparati, incapaci?

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