Iran e Qatar sponsor e mandanti di Hamas: da gruppo palestinese a “proxy” regionale

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Da Gerusalemme – Hamas non è più un gruppo circoscritto a Gaza, ma è ormai diventato un movimento regionale. La strategia politica e militare di Hamas infatti non tiene più in considerazione soltanto gli aspetti locali, ma anche quelli dei suoi alleati in Medio Oriente: Iran e Qatar. La prova ci viene data dalla non-reazione di Hamas alla “marcia delle bandiere”, organizzata dai settlers e dai movimenti di estrema destra israeliana, lo scorso 15 giugno a Gerusalemme. Israele aveva già dichiarato l’allerta e schierato l’Iron Dome, per prepararsi a un eventuale attacco missilistico da Gaza, come era avvenuto lo scorso maggio. Nonostante il sito vicino a Hamas, Gaza Alan, avesse annunciato durante lo svolgimento della marcia che un’autobomba fosse pronta a esplodere e che i missili sarebbero arrivati in serata, niente di tutto ciò è accaduto.

Non solo, ma dopo che Israele ha bombardato Gaza, già due volte dal 15 giugno, in risposta ai palloncini incendiari lanciati dall’unità Barq (vicina al gruppo Jihad Islamica), Hamas ha nuovamente deciso di non reagire, dicendo che non sarà Israele a dettare i tempi della guerra o a cambiare “l’equazione” sul terreno. Questo fa capire che Hamas non è più il movimento che reagisce di pancia e che pensa a soddisfare soltanto le richieste dei palestinesi, che dai social media gridano: “Abu Obeida [portavoce del braccio armato di Hamas, ormai diventato una star, ndr] pensaci tu!” “Abu Obeida fai sentire al nemico le fiamme dei missili da Gaza.” Hamas adesso è un movimento regionale, che segue le logiche e le necessità dei suoi finanziatori/sostenitori.

Per capire meglio, facciamo un passo indietro e torniamo allo scorso maggio, quando è iniziata la guerra degli “11 giorni” (o come la chiama Hamas, la battaglia della spada di Al-Quds). I primi di maggio, la situazione a Gerusalemme è sempre più tesa, a causa degli sfratti a Sheikh Jarrah e per alcune barricate messe dalla polizia (e poi tolte) davanti a Bab Al-Amoud (la porta che conduce al quartiere musulmano in città vecchia) durante il mese del Ramadan. Poi il 10 maggio, si svolge come di consuetudine la “marcia delle bandiere” per ricordare l’unificazione israeliana dei due settori (est e ovest) della città di Gerusalemme durante la Guerra dei sei giorni. Hamas approfitta pertanto dell’occasione, e – mentre gli israeliani (per lo più settlers e di estrema destra) sventolano le bandiere bianche e blu nel cuore della città sacra – lancia i primi missili su Gerusalemme, dando inizio a una guerra che sarebbe durata quasi due settimane. Ma perché Hamas ha lanciato i missili, dopo 7 anni di tregua dall’ultima guerra nel 2014?

Come suggeriscono pertanto gli stessi analisti del Golfo, Hamas non ha iniziato una guerra per “difendere” quattro case a Sheikh Jarrah, ma bensì per rispondere alle necessità di Teheran di fare pressione sugli Stati Uniti. Da qualche mese, l’Iran, finanziatore di Hamas (il leader di Hamas Ismail Haniyeh, in ogni suo discorso, ringrazia sempre Teheran per il sostegno economico e militare) ha iniziato a negoziare il rinnovo dell’accordo sul nucleare (Jcpoa). Questo accordo è stato raggiunto durante l’amministrazione Obama nel 2015 tra l’Iran, il P5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti – più la Germania) e l’Unione europea. Nel 2018, sotto l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti sono usciti dall’accordo (considerato non adeguato a prevenire l’acquisizione dalla bomba nucleare da parte iraniana), accusando l’Iran di aver violato il Jcpoa e rilanciando così le sanzioni economiche contro Teheran. Adesso però l’amministrazione Biden vuole unirsi nuovamente all’accordo, ma con nuove condizioni, che il regime iraniano non è disposto ad accettare. Allo stesso tempo però Teheran, se vuole vedere eliminate le sanzioni, deve accettare di negoziare il Jcpoa con Washington. Qui subentra il ruolo di Hamas.

L’Iran, infatti, che non vuole accogliere tutte le condizioni imposte dagli Stati Uniti, sa di poter contare su Hamas per portare avanti una proxy war (da notare: Teheran non può più fare affidamento su Hezbollah, ormai politicamente indebolito e con il suo leader leader Nasrallah che non gode di buona salute). L’Iran ha pertanto utilizzato l’escalation di Hamas contro Israele per due motivi: primo, migliorare la sua influenza negoziale sull’accordo nucleare con gli Stati Uniti; secondo, testare la nuova amministrazione Biden e la sua volontà di sostenere Israele.

Dalla guerra degli 11 giorni, che cosa ha quindi ottenuto l’Iran? L’Iran ha ottenuto quello che voleva. Infatti, nonostante Israele abbia vinto militarmente, al contempo ne è uscito dalla guerra politicamente indebolito, a differenza di Hamas. L’indebolimento politico di Israele ha causato anche un indebolimento della propria influenza sugli Stati Uniti per quanto riguarda l’accordo nucleare con l’Iran. Israele è infatti il maggior oppositore del Jcpoa e indebolire politicamente Israele equivale ad affievolire le voci negli Stati Uniti contro l’accordo. Questo indebolimento è pertanto un grande successo per l’Iran.

Però perché Hamas non attacca nuovamente? A questa domanda ci sono varie risposte:

Elezioni in Iran – L’Iran adesso, con le elezioni che si sono svolte il 18 giugno, non ha bisogno di problemi o distrazioni da parte dei suoi proxies. Fino all’insediamento del nuovo governo, non ha bisogno di una nuova guerra con Israele.

Rapprochment Egitto-Qatar – Nel dopoguerra si sono aperti nuovi scenari. L’Egitto si è imposto come il grande mediatore del conflitto tra Hamas e Israele, ritornando a essere un attore di prestigio nel contesto mediorientale. Queste volta però l’Egitto non sembra aver adottato un approccio super partes. Infatti, lo scorso 14 giugno, il ministro degli affari esteri egiziano Sameh Shoukry è andato in pompa magna in visita ufficiale nel Qatar, maggior sostenitore di Hamas, ufficializzando così la ripresa dei rapporti diplomatici.

La visita infatti può essere considerata storica dato che era da ben 8 anni che un ministro egiziano non andava a Doha. I rapporti fra Egitto e Qatar, alleato della Turchia e nemico dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi, sembrano pertanto essersi normalizzati, tanto che il presidente egiziano Abdel Fattah el-Sisi ha invitato l’emiro qatariota Tamim bin Hamad Al Thani a visitare il Cairo alla prima occasione possibile.

Il Qatar è contento di questo rapprochement con l’Egitto, che era prima schierato con gli Emirati Arabi e l’Arabia Saudita. In cambio della normalizzazione dei rapporti, il Cairo vuole che il Qatar moderi le attività antigovernative dei Fratelli Musulmani in Egitto. Allo stesso tempo però Sisi deve riconoscere Hamas come rappresentante del popolo palestinese, a discapito dell’Autorità palestinese. Adesso che l’Egitto ha ritrovato un suo ruolo di prestigio come mediatore tra Hamas e Israele (esaltato dalla stessa amministrazione Biden) non può permettersi di perderlo con l’inizio di un nuovo conflitto. Il Qatar, che non vuole perdere l’Egitto come alleato, frena pertanto la reazione di Hamas contro Israele.

Finanziamenti del Qatar a Gaza – Hamas richiede da tempo a Israele di far entrare i finanziamenti del Qatar direttamente a Gaza. Il movimento terroristico ha infatti un bisogno urgente di questi soldi per poter ricostruire le postazioni militari colpite durante la guerra. Nelle ultime settimane, i leader del movimento hanno più volte minacciato di ricominciare l’escalation per fare pressione su Israele sulla questione dei finanziamenti. Hamas però si rende conto che, se dovesse ricominciare una guerra, Israele non lascerebbe entrare a Gaza nessun aiuto economico da parte del Qatar. È importante sottolineare che Hamas vuole che questi finanziamenti arrivino direttamente a Gaza, senza passare da intermediari come l’Autorità palestinese o l’Egitto, temendo di vedere sottratto da questi ultimi buona parte dell’aiuto economico.

Prigionieri di Hamas in Israele – Infine, c’è la questione dei prigionieri. Il leader di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar ha detto di volere 1.111 prigionieri in cambio dei quattro ostaggi israeliani, due vivi e due morti, che il movimento tiene in ostaggio (alcuni media di Gaza suggeriscono che la richiesta sarebbe addirittura di 4.444 prigionieri, ovvero di 1.111 prigionieri per ogni ostaggio). Uno scambio che Israele non è disposto ad accettare soprattutto in caso dello scoppio di una nuova guerra. Nel frattempo la questione dello scambio di prigionieri è sul tavolo dei negoziati con Israele attraverso la mediazione egiziana. Nella pagina Twitter di Gaza Alan, un utente ha chiesto perché Hamas non ha risposto all’ultimo bombardamento israeliano di Gaza. La risposta di Gaza Alan è stata: “Questa è una fase di calma… deve essere prima risolta la questione dello scambio di prigionieri”.

Prigionieri di Hamas in Arabia Saudita – È da anni che Hamas cerca di liberare i propri prigionieri in Arabia Saudita. I primi di giugno, Mouath Abu Shemala, un membro di Hamas in Yemen, si è incontrato con Mohammed Ali Al-Houthi, figura di rilievo del gruppo armato sciita degli Houthi, longa manus dell’Iran in Yemen e nemici dell’Arabia Saudita. Durante l’incontro, criticato online dal mondo sunnita, sembra che si sia discusso della possibilità di uno scambio di prigionieri con l’Arabia Saudita. Gli Houthi darebbero a Riyadh dei prigionieri sauditi in cambio del rilascio di prigionieri di Hamas in Arabia Saudita. Intanto, però, i media arabi hanno fatto sapere lo scorso sabato 19 giugno, che l’Arabia Saudita ha arrestato 160 palestinesi affiliati a Hamas. L’Arabia Saudita infatti teme il legame Hamas-Houthi, dato che quest’ultimo è accusato di aver persino lanciato nel 2019 un missile contro La Mecca. Hamas pertanto ricomincerà ad attaccare Israele soltanto quando valuterà essere il momento opportuno per il gruppo e per i suoi alleati in Medio Oriente. Hamas è adesso un movimento regionale, che segue logiche legate agli interessi di Iran e Qatar, e non può permettersi di fare errori strategici e prendere decisioni da solo o basate soltanto sull’impulsività del momento.

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