La corsa alle terre rare: il dominio cinese e la frontiera dell’Artico

Zuppa di Porro: rassegna stampa dell’8 aprile 2020

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La geopolitica è una scienza affascinante per vari motivi. Innanzitutto, è una delle poche materie di studio che riguarda svariati ambiti d’interesse legati tra loro da un filo rosso non sempre evidente, ma non per questo non impossibile da scorgere. Deduciamo dal nome stesso come geografia e politica s’intreccino tra loro a formare  una materia a sé stante, qualcosa che vale sempre la pena di tenere sott’occhio per avere un quadro abbastanza preciso di come va il mondo e di quali eventi cruciali potranno cambiarlo, talvolta nel breve volgere di qualche anno.

Partiamo dalla calamita, ossia dalla più recente composizione chimica dei magneti in genere. Attualmente, il ruolo, possiamo dire strategico, dei magneti permanenti è legato al rapporto tra la dimensione del magnete e la sua forza di attrazione. Più piccolo e potente sarà il magnete e tanto più facilmente troverà applicazione in svariatissimi dispositivi elettronici che caratterizzano la vita quotidiana di tutti noi. Le calamite di nuova generazione, utilizzate a partire dalla fine degli anni Ottanta, sono dotate di una capacità di attrazione cinque volte maggiore dei magneti fissi del passato, con l’evidente vantaggio di poter essere installate all’interno di apparati miniaturizzati, quali i telefoni cellulari, e sono formate da una miscela minerale in cui prevale il neodimio, una sostanza chimica presente nel sottosuolo appartenente alle c.d. “terre rare”, così definite non tanto per la limitata disponibilità di tali elementi in assoluto, ma per la scarsissima concentrazione di tali sostanze in quantità ove sia economicamente conveniente estrarle a causa delle tecniche di estrazione e separazione successive, in quanto le terre rare che si vogliono utilizzare sono frammischiate con moltissimi altri elementi quali alogenuri, carbonati, ossidi, fosfati e silicati  “di scarto”.

Oltre al neodimio, largamente utilizzato negli hard disk dei computer, negli altoparlanti anche di piccolissima dimensione e nei motori elettrici di nuova generazione, compresi quelli delle auto elettriche, basterebbe citare il lantanio, massivamente utilizzato nell’industria ottica, che permette di realizzare le moderne lenti di ogni tipo e dimensione. Sempre sulle terre rare (composte da ben 17 elementi chimici) è largamente basata la produzione delle moderne batterie delle auto elettriche, ossia su ciò che viene definito il futuro dell’automotive (e ciò ne dimostra il costo elevatissimo). Si pensi ancora, per fare un altro esempio pratico, che tutti i display a cristalli liquidi impiegano al loro interno terre rare. Appare quindi, in tutta la sua drammatica evidenza, quanto l’individuazione dei giacimenti e, soprattutto, l’estrazione delle terre rare sia questione d’importanza strategica per tutto il settore produttivo più evoluto e di maggiori prospettive future. Non è chiarissimo se i maggiori giacimenti di terre rare siano effettivamente in Cina, negli Usa e in Australia, come parebbe, perché la stessa fase di prospezione dei siti comporta tecniche e costi proibitivi, ma sta di fatto che la Cina è il maggior produttore al mondo di terre rare, con almeno il 50 per cento della produzione totale.

E qui salta fuori il mandarino. Si sa, i cinesi sono lungimiranti e maestri nella programmazione industriale a lungo periodo e quindi non c’è da stupirsi se già Deng Xiaoping intuì l’immenso potenziale commerciale delle terre rare, permettendo di raggiungere l’impressionante volume di 132 mila tonnellate estratte nel 2019, in costante crescita tutt’ora. Se si considera che il solo scandio (una delle 17) ha attualmente una quotazione ufficiale di circa 3.500 dollari al kg e che, oltre al listino indicativo ufficiale del National Minerals Information Center statunitense esistono quotazioni parallele assai meno trasparenti ed estremamente fluttuanti, il business delle terre rare è talmente allettante e remunerativo da aver di gran lunga sorpassato negli interessi nazionali quello legato all’estrazione aurifera. È, inoltre, significativo il gap che separa la Cina, con le sue 132 mila tonnellate estratte nel 2019, con il secondo produttore mondiale, l’America, che la segue con “appena”  26 mila tonnellate estratte nello stesso anno. Terzo produttore è la Birmania-Myanmar (22 mila tonnellate) seguita nella classifica dall’Australia con 20 mila tonnellate, mentre la potentissima Russia ne ha estratto soltanto 2.700 tonnellate.

Assai interessante è altresì la stima delle riserve disponibili, che vede, anche qui, al primo posto la Cina ma, stavolta, vi è una novità: al secondo posto, con un ammontare presunto pari alla metà di quello cinese, è salito il Vietnam (22 milioni di tonnellate giacenti), per quanto la produzione del povero stato indocinese sia di sole 900 tonnellate ed in decrescita, affiancato dal Brasile, che ne produce tuttavia qualcosa in più. In questa classifica, si potrebbe dire che  la Russia (con la sua produzione di 2.700 tonnellate annue, a fronte di riserve enormi, pari a 12 milioni di tonnellate nel 2019) non esprime una performance di alto livello, soprattutto nel raffronto tra giacimenti non ancora sfruttati e produzione effettiva. Per quanto riguarda la Russia, che finora ha importato circa il 90 per cento del suo fabbisogno di terre rare dalla Cina, vi è da dire però che un recentissimo programma, denominato Zašikhinskoje, prevede la massiccia estrazione nel nuovo sito estrattivo situato in Siberia, ai confini con la Mongolia, le cui prospezioni geologiche indicherebbero riserve di niobio e tantalio per oltre 33 milioni di tonnellate, benché finora Putin abbia preferito acquistare terre rare con un accordo commerciale con la Cina.

Lo strapotere della Cina, come per il mercato mondiale dell’acciaio, è ad oggi assoluto e destinato a durare ancora per molti anni, con ricadute enormi sul mercato globale, almeno per un motivo: i componenti elettronici in genere fanno sempre più largo utilizzo di terre rare ed i settori della difesa militare e della ricerca spaziale non ne possono più fare a meno, se non vogliano fare un passo indietro, soprattutto nella miniaturizzazione e versatilità degli apparati che impiegano. Infinite possono essere le teorie sull’opportunità di accordi e convenzioni promanate da organi di “regulation” sovranazionali, oppure sui possibili dazi o prezzi calmierati per evitare l’accaparramento cinese di tanta preziosa mercanzia, ma resta la cruda realtà, quella che riscontriamo nelle crisi del mercato automobilistico o in quello della meccanizzazione industriale, nei quali la Cina fa il bello e il brutto tempo a suo piacimento. Il leader cinese Xi Jinping, non a caso pure segretario del partito comunista più grande al mondo, ha il pallino in mano, anzi tiene la mano ben salda sul rubinetto della produzione tecnologica mondiale, piaccia o no.

Per quanto ancora tutto ciò potrà accadere? Qui fa capolino l’orso polare, con la sua candida pelliccia che ricorda certi berretti invernali di Putin. Vuolsi il caso che nell’immensa e desertica Groenlandia e, a quanto pare, ancor più nelle gelide distese artiche, si stanno rivelando attendibili le prospezioni geologiche che indicherebbero un’enorme quantità di terre rare, tutte disponibili e da subito. Ciò accade per il progressivo ritrarsi della banchisa e lo scioglimento di enormi ghiacciai artici, rendendo l’estrazione relativamente più semplice. Si aggiunga che la quasi certa creazione naturale entro pochi anni di una via di passaggio marittima transpolare stravolgerebbe l’intero commercio via nave e permetterebbe tempi di navigazione drasticamente abbreviati tra Asia e continente europeo, il che renderebbe certamente più interessante e pratico ingrandire i siti estrattivi polari. Che sotto i ghiacci polari vi siano grandi giacimenti di terre rare è altamente probabile, diversamente non si giustificherebbe tanto improvviso interesse delle grandi nazioni per il Polo Nord, e certamente anche il recente ripopolamento delle basi artiche americane, russe e di altri Paesi mondiali va in quella direzione.

Come se non bastassero i 100 miliardi di barili di greggio ed i 100 milioni di metri cubi di gas naturale che giacciono sotto il territorio artico, la concreta prospettiva di ricavare enormi quantità di terre rare dal Polo Nord e dintorni, la questione dello sfruttamento delle zone polari (Antartide compresa) si ripropone con più forza che mai alla ribalta mondiale, con una escalation di scaramucce tra le forze militari dispiegate nell’immensa landa ghiacciata, principalmente tra Stati Uniti, Russia e Norvegia, almeno per ora. Le rivendicazioni territoriali nelle regioni polari, dopo aver registrato una fase di stanca per decenni, a causa del limitato interesse per lo sfruttamento concreto delle risorse ivi presenti, hanno da poco ripreso forza negli ultimi lustri e non è azzardato sostenere che proprio in tali contesti geografici si concentreranno le diplomazie internazionali, sempre che tutto ciò non conduca a veri e propri scontri armati per il dominio sull’Artide, in una partita che sembrava impossibile fino a pochi anni fa, coinvolgendo, seppure in misura minore, il continente antartico, che tuttavia è sempre più considerato meritevole di nuovi insediamenti militari.

Vi è poi un aspetto tutt’altro che secondario della questione delle terre rare: è assolutamente certo che le attuali tecniche per estrarle dai composti nelle quali sono contenute e, soprattutto, per separarle dal materiale di scarto comporta l’utilizzo di procedimenti assai pericolosi per la salute degli addetti all’estrazione e, nel lungo periodo, pure per l’ambiente. Oltre ad utilizzare acido cloridrico ed acido nitrico come soluzione solvente, con conseguente difficile smaltimento della miscela di raffinazione, il processo di raffinazione coinvolge altresì sostanze radioattive e/o fortemente tossiche, con le criticità tipiche dei procedimenti industriali sperimentali, i quali spesso riservano amare sorprese dopo qualche decennio, allorché, come accadde per la lavorazione dell’amianto, si scopra l’elevata cancerogenicità di tali sostanze. È, di fatto, una corsa contro il tempo: nel timore che nuove convenzioni internazionali specifiche possano regolamentare in modo restrittivo l’estrazione e la lavorazione in loco o altrove delle terre rare, la Cina, gli Stati Uniti e le altre nazioni aventi accesso esclusivo ai giacimenti stanno massimizzando i volumi d’estrazione e  si teme che lo possano fare talvolta senza troppi scrupoli per l’ambiente. Quello che moltissimi ambientalisti sembrano non aver ancora capito bene è proprio che la violenta virata imposta dalla green economy verso l’elettrico, l’eolico e, in sostanza, verso una società sempre più basata sull’impiego di semiconduttori e superconduttori comporta necessariamente, almeno per quanto la scienza attuale indichi, un crescente utilizzo di terre rare e proprio in quei settori, come ad esempio per i materiali che compongono le pale eoliche e le batterie ad esse collegate.

Siamo di fronte al paradosso dell’arricchimento sconsiderato ed al monopolio di alcune potenze mondiali su risorse di primissima necessità per contrastare le differenze tra ricchi e poveri del mondo e per garantire a tutti un futuro che, per usare un termine di gran moda, vorrebbe essere sostenibile. Soltanto da un paio d’anni sembra che si cominci a parlare, anche se con connotazioni talvolta troppo ideologiche, di questa materia dai molteplici aspetti geopolitici e non è certamente la maggioranza dei convinti sostenitori dell’economia verde ad essere ben conscia di come si voglia decarbonizzare l’industria, ossia di quali siano le prospettive attuali, e presumibilmente valide ancora per almeno un paio di decenni, e quindi ben oltre i limiti delle soglie temporali imposte dai trattati, perché sempre più dipendenti dalla crescente domanda di terre rare, con tutto ciò che la loro estrazione e commercializzazione comporta. Sembra impossibile ma è così: i più convinti assertori del passaggio a tecnologie che ritengono “pulite”, come quella eolica o fotovoltaica, non considerano minimamente sconveniente e controproducente utilizzare massivamente le terre rare, che sono riciclabili soltanto per meno dell’1 per cento, in un contesto in cui la riciclabilità delle materie prime viene indicata come un requisito insopprimibile.

Si sa, le grandi potenze, ma alcune più delle altre, hanno sempre dimostrato una bella dose di cinismo nell’indicare la via da seguire, la nuova frontiera e come raggiungerla. Per adesso la situazione è assolutamente sbilanciata a favore della Cina, come se l’intera economia mondiale non la vedesse già abbastanza protagonista assoluta. In tale variegato quadro globale sarà interessante osservare quale ruolo vorrà e potrà giocare l’Europa, intesa come insieme di diversi Stati più che come istituzione che abbia finora dato prova di influenza ed autorità verso lo strapotere asiatico e mediorientale. Se i Paesi scandinavi e la Groenlandia potranno dire la loro, in quanto proprietari di una bella fetta del sottosuolo contenente le terre rare, lo vedremo presto, ma non sarei ottimista sulla loro possibilità di contrapporsi efficacemente, ove si rendesse necessario, alla Cina. La Cina, come al solito, è partita prima degli altri e gli investimenti fatti tanto da Xi che dai suoi predecessori, nell’estrazione e nella lavorazione delle terre rare, sono sotto gli occhi di tutti.

Paradossalmente ci siamo messi un vicolo senza uscita. Abbiamo voluto fare il salto di qualità nello sviluppo tecnologico e nella miniaturizzazione (piccolo è bello ma richiede molte terre rare) e vogliamo sempre più energie pulite che di pulito avranno forse il prodotto finale ma per ottenere tale risultato si devono impiegare tecnologie rischiose e dal forte impatto ambientale (il solo rischio di inquinamento delle falde sembra essere attuale e lo smaltimento dei composti tossici e nocivi di lavorazione è ancora tutto da regolamentare in modo univoco), ma, di fatto, si favorisce l’accumulo di sempre più potere nelle mani dei soliti che già spadroneggiano nell’economia globale. Ha forse trionfato il proletariato come Marx, Lenin, Mao preconizzavano? Se la Cina potesse definirsi uno Stato proletario, e non lo credo affatto, si direbbe di sì, dal momento che sta sempre più dettando le regole dell’economia mondiale. Possiamo comunque ben dire che se la calamita è più che mai necessaria, il mandarino si comporta ancora da mandarino, ossia da rigido applicatore di misure impostegli dall’Imperatore, e l’orso bianco non è sempre amichevole e tenero quanto sembra da cucciolo.

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