La Nato sbarca a Taipei: la pressione di Trump sugli alleati europei e la difesa di Taiwan dalla minaccia cinese

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Dal 24 al 27 luglio, il Ministero della difesa nazionale di Taiwan (MND) ha organizzato la seconda “Conferenza internazionale sull’Educazione Militare e la Sicurezza Regionale”, che si è tenuta presso la National Defence University. L’evento, che ha cadenza annuale, consiste in una serie di conferenze e visite alle installazioni militari sull’isola. I tre temi principali della conferenza sono stati: la cooperazione internazionale nel campo dell’educazione militare; il passaggio dalla coscrizione obbligatoria al professionismo; la sicurezza regionale. Hanno partecipato circa quaranta esperti e analisti militari e civili provenienti da 23 Paesi di tutto il mondo. Quest’anno l’evento ha assunto un significato speciale dal punto di vista geopolitico, in quanto la conferenza è stata aperta da Christine Theresa Whitecross, che ha visitato Taipei per la seconda volta in sei mesi. Questo avviene dopo il recente vertice NATO di Bruxelles, in cui il presidente Usa Trump ha sollecitato gli alleati ad aumentare la spesa per la difesa nei bilanci dell’Alleanza e a difendere i valori democratici liberali, e le regole dell’ordine internazionale, attualmente minacciati da poteri revisionisti e autocratici.

La dichiarazione del vertice NATO del 2018 afferma: “Siamo determinati a proteggere e difendere la nostra sicurezza, la nostra libertà e i nostri valori comuni, tra cui la libertà individuale, i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto”. Come non tutti sanno, l’isola di Taiwan con 23 milioni di abitanti si è evoluta in una delle democrazie più vivaci in Asia, con una preparata stampa indipendente. Non sorprende che nessuno abbia dimenticato in questa parte del mondo che, dopo aver vinto le elezioni e prima del suo insediamento, il presidente Trump abbia avuto una conversazione telefonica con il presidente di Taiwan, Tsai Ing-wen. Questa telefonata è stata seguita dall’approvazione di vendite pari a 1,4 miliardi di dollari di armi a Taiwan da parte dell’amministrazione Usa. Una recente direttiva presidenziale americana incoraggia adesso le visite ufficiali tra i due paesi. Non bisogna inoltre dimenticare che John Bolton, da aprile consigliere per la sicurezza nazionale, è una delle figure più “taiwanesi” di
Washington.

In questo contesto si può inserire la richiesta, recentemente presentata dal Dipartimento di Stato Usa, di veder tornare a Taiwan i Marines per la prima volta dal 1979 con lo scopo dichiarato di dare protezione alla nuova ambasciata degli Stati Uniti. La missione diplomatica recentemente inaugurata a Taipei è uno dei più grandi siti di questo genere ed è composta da circa 500 persone. In poche parole, si può dire che oggi è sempre più evidente una nuova iniziativa presa all’interno del governo e del Congresso degli Stati Uniti volta a prestare maggiore attenzione alla difesa di Taiwan. Per diversi decenni, Washington ha seguito una politica che ha evitato di irritare la Cina quando si parlava di Taiwan, ma in questo periodo il governo taiwanese è palesemente sotto forte pressione da parte di Pechino. Il governo cinese di Xi ha ridotto i viaggi turistici e alcuni scambi commerciali attraverso lo Stretto di Taiwan e condotto campagne di notizie false (fake news) volte a screditare il governo di Taiwan attraverso l’utilizzo dei social media. Taiwan ha risposto cercando di diversificare il commercio nel Sud-Est asiatico e aumentando leggermente la spesa per la difesa. Queste due azioni sono dovute al fatto che nella realtà, rispetto al passato, Taiwan ha meno strumenti per contrastare sia militarmente sia economicamente Pechino, anche se negli ultimi anni le relazioni commerciali con la Cina popolare sono state potenziate. Tutti ricordano che trent’anni fa Taiwan faceva parte delle cosiddette “tigri asiatiche” e la sua economia quasi eguagliava le dimensioni della Cina continentale che ora, tuttavia, ha preso slancio a livello regionale.

Oggi, nonostante la politica di diversificazione degli scambi in atto, il 40 per cento delle esportazioni di Taiwan è verso la Cina e Hong Kong, e sono oltre un milione i lavoratori taiwanesi che prestano la loro opera nella Cina Popolare. Nonostante una disoccupazione a livelli minimi i salari sull’isola sono rimasti in gran parte invariati e tale situazione ha generato una costante “fuga di cervelli” verso la terraferma. Questa fuga è astutamente incoraggiata da Pechino con importanti incentivi salariali a chi accetta di trasferirsi oltre lo Stretto. Per quanto riguarda gli sforzi di Pechino nel campo diplomatico, essi consistono ora principalmente nel ridurre il numero di Paesi che riconoscono Taiwan come la Repubblica di Cina. Gli ultimi a interrompere le relazioni diplomatiche con Taiwan sono stati il Burkina Faso e la Repubblica Dominicana, che a maggio hanno deciso di abbandonare Taipei in cambio di importanti aiuti economici cinesi. Il governo di Pechino si è anche attivato contro società straniere, come le compagnie di abbigliamento, le compagnie aeree e le catene alberghiere, che non fanno riferimento a Taiwan come territorio della Repubblica Popolare Cinese. Molte compagnie aeree hanno iniziato a includere sui loro siti web tutte le destinazioni all’interno dell’isola di Taiwan come località della Repubblica Popolare Cinese. Il cambiamento chiesto da Pechino doveva entrare in vigore il 25 luglio. Quali sanzioni il governo cinese applicherà per non conformità dopo l’ultimatum non è ancora chiaro. Tuttavia, la maggior parte delle compagnie aeree ha preferito “fare le cose per bene” in anticipo. Ad esempio, Air India ha cambiato la destinazione di Taiwan in “Taipei cinese” sul suo sito web. Nonostante ciò il governo taiwanese, che sta affrontando una sfida sempre più difficile, continua sulla linea di affermazione della dignità nazionale di Taiwan a livello globale ed è determinato a non piegarsi alle pressioni cinesi e a mantenere lo status quo, pur restando consapevole che le implicazioni strategiche di una crisi generalizzata sarebbero disastrose per l’intera regione dell’Asia orientale.

Di conseguenza, è chiaro che gli Stati Uniti, quale principale sostenitore di Taipei, devono mantenere una considerevole capacità operativa e un numero cospicuo di forze, in quello che la Strategia di sicurezza nazionale 2017 chiama ora “Indo-Pacifico”. Come accennato in precedenza, gli Stati Uniti hanno promesso al summit della NATO di Bruxelles di mantenere, allo stesso tempo, la credibilità delle proprie capacità di difesa dell’Europa, ricevendo in cambio un sostanziale maggiore impegno economico per la difesa da parte tutti i membri dell’Alleanza. Nei prossimi anni, i Paesi europei della NATO e il Canada dovranno trovare il modo di mantenere una credibilità che consenta agli Stati Uniti di essere forti laddove devono essere forti (ad esempio nell’Indo-Pacifico) e di generare la necessaria deterrenza. Ciò significa che dovranno garantire quanto meno una maggiore capacità in termini di forze all’interno della struttura della NATO per consolidare i rapporti di forza nell’Alleanza allo scopo di far fronte alle sfide dei prossimi decenni insieme ai Paesi amici e partner. Come dichiarato al vertice di Bruxelles della NATO, “ribadiamo il nostro impegno a espandere il dialogo politico e la cooperazione con qualsiasi nazione che condivida i valori e l’interesse dell’Alleanza per la pace e la sicurezza internazionali…”. È in questo contesto, quindi, che si deve trovare il significato del primo “piccolo ma importante sbarco” della NATO a Taipei durante la conferenza sull’Educazione Militare e Sicurezza Regionale del 2018.

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