La parola patria un nervo scoperto per il Pd, abituato a imporre presidenti di parte e di partito

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Non credo si dovesse far fatica ad indovinare che cosa Giorgia Meloni intendesse col termine “patriota”, avendolo accompagnato con un doppio riferimento, positivo il primo, attento agli interessi nazionali, negativo il secondo, sprovvisto della tessera del Pd. Quest’ultimo è chiarissimo, dato che fa riferimento alla elezione dei due ultimi presidenti della Repubblica, Napolitano e Mattarella: l’uno, comunista della prima ora, come tale corresponsabile morale dell’intero percorso staliniano e post-staliniano del Pci, dall’apprezzamento del colpo di stato in Cecoslovacchia fino al soffocamento della rivolta in Ungheria; l’altro, dal lungo corso democristiano, approdato con lo scioglimento della Margherita nel Pd. Nessuno dei due, a prescindere dalla seconda elezione di Napolitano, figlio di un accordo preventivo col centrodestra, sì da far apparire alquanto ipocrita l’attuale rivendica di Letta di scegliere una persona accompagnata da una quasi unanimità, siffatta da richiamare la favola della volpe e l’uva, non essendosi oggi, almeno sulla carta, la possibilità di prescindere da Forza Italia, Lega, Fratelli d’Italia.

È la caduta dell’illusione di poter fare tutto da solo, coltivata ostinatamente, tanto che il vertice del Pd ha giustificato il suo no allo scioglimento anticipato del Parlamento, proprio perché l’attuale sembrava fino all’altro giorno assai più favorevole di quello pronosticato per il dopo elezioni politiche. Sostenere che, a conti fatti, Napolitano e Mattarella sarebbero stati due presidenti super partes, è solo una opinione che non può dire confermata di per sé dal consenso popolare, che sempre si esprime per l’uomo seduto al Quirinale. Napolitano ha giocato sporco, non così Mattarella, che, però è responsabile dell’attuale ingorgo istituzionale, come da me sostenuto in un articolo precedente.

Dunque, per la Meloni aver in tasca la tessera del Pd significa non essere un patriota nel senso di avere a cuore gli interessi nazionali. Grande strepito nei mass media progressisti, che confermano di avere un nervo scoperto con riguardo alla stessa parola di patria, come una comunità unita dalla lingua, dalla tradizione, della cultura, qui da noi testimoniata da un imponente patrimonio monumentale e artistico, non comprensibile se non nell’alveo costituito dall’Impero di Roma e dal successivo primato del cristianesimo, niente più né meno di una unità nazionale figlia del Risorgimento. Ieri, a tener banco era un internazionalismo sfociato in un terzomondismo di facciata, oggi un europeismo di maniera, in entrambi casi la patria come identità nazionale risulta una nozione priva di diritto di cittadinanza, tanto da averla evitata accuratamente, una espressione di destra, non per nulla cara alla lingua del regime fascista, sì da lasciarla in eredità alla destra.

Troppa grazia, una volta che la parola è stata riscoperta dal presidente Ciampi, c’è stata una sorta di volta faccia, con una forzatura tesa a distinguere patria e nazione, violandone la indissolubilità, recuperando il patriottismo e condannando il nazionalismo. Ma anche quest’ultimo termine poteva riuscire eccessivo, ecco, dunque, trasformato in sovranismo, che di per sé vale antieuropeismo, inteso come contrasto all’esplicito disegno del Pd di recuperare spazio e credito in un potenziamento ipertrofico dello spazio europeo, gestito da una troika costituita da Italia, Francia Germania. Ne rappresenta una conferma tutto il can can che si è fatto sull’emergere di Draghi come legittimo successore della Merkel, sì da risultare come un primus inter pares fra il cancelliere tedesco e il presidente francese, con il quale si è concluso il Trattato del Quirinale, tanto celebrato quanto poco o niente pubblicizzato nel suo contenuto.

Sovranismo, in quanto coniugato per la Polonia e l’Ungheria, porta con sé inevitabilmente l’accusa di negazione dello stato di diritto, con particolare riguardo alla indipendenza dei giudici e alla tutela dei diritti civili di nuova generazione. La prima accusa non gode al momento di grande fortuna, data la caduta di credibilità della nostra magistratura colpevole non solo di una incredibile durata dei processi, ma ancor più di una gestione politicizzata della giustizia; ma, comunque viene ancor mossa nei confronti di una destra che vorrebbe la distinzione di reclutamento e di carriera fra giudicanti e inquirenti, non che l’effettiva messa al bando delle correnti. La seconda accusa, invece, è mossa con gran battuta di cassa, con riguardo a diritti dati per scontati, come la libera coltivazione della cannabis, la soppressione del reato di omicidio del consenziente, la introduzione dell’identità di genere, tutte riforme più o meno condivisibili, ma espressione di un individualismo accentuato.

Tutto questo rigurgita nella messa sotto processo della Meloni, questa volta servendosi del suo ricorso al termine patriota, ma serve solo ad evidenziare ancor più lo sfondo, quale dato da un passato non ancora accantonato che di per sé la renderebbe poco e niente affidabile come presidente del Consiglio agli occhi dell’Ue, qui chiamata in causa nel meno nobile compito di far fallire tramite un boicottaggio finanziario una eventuale vittoria del centrodestra, con Fratelli d’Italia a far da traino. È quasi patetico il ricorrente tentativo del Pd e compagni di chiedere agli altri ossessivamente di fare i conti col proprio passato, quando essi non l’hanno mai fatto, limitandosi, prima, a rimuoverlo, facendolo partire da Berlinguer, che, alla vigilia del crollo dell’Unione Sovietica, era arrivato solo a ritenere esaurita la propulsione della rivoluzione del 1917; spingendosi, poi, a considerarlo completamente sanato dall’elezione di Napolitano, un vero e proprio comunista d’antan.

L’antifascismo è sempre stato la foglia di fico dietro cui i comunisti e i loro eredi hanno nascosto le loro pudenda, ma questo aveva un senso quando non potevano condividere apertamente il modello di democrazia occidentale, vis-à-vis delle c.d. democrazie progressiste imposte al di là della cortina di ferro. Oggi è divenuta una stanca nenia, volgarizzata in una serie di pamphlet dove il fascismo è scorporato dal suo contesto storico, fino a farne il carattere distintivo di un tipo lombrosiano, dotato di particolari caratteri fisionomici e caratteriali. Solo che quando tutto è fascismo, niente è fascismo, sì che oggi, l’attributo fascista è divenuto niente più che un epiteto, collegato a qualsiasi comportamento ritenuto aggressivo o semplicemente offensivo.

Dietro, c’è, però, l’ombra minacciosa di Silvio Berlusconi che, giorno dietro giorno, diventa da possibile, probabile, da probabile sempre più certa. L’ascesa alla presidenza dell’uomo di Arcore significherebbe un autentico dramma per tutta la sinistra, rivaluterebbe interamente la Seconda Repubblica da lui inaugurata, facendo scadere a propaganda faziosa e malevole la caccia condotta nei suoi confronti con a far da regista una procura milanese rivelatasi verminosa; ma renderebbe scontata la vittoria del centrodestra alle elezioni del 2023. Il fuoco di fila è in pieno corso, certo Berlusconi non è il migliore degli uomini, ma non certo un leader privo di un mitico cursus honoris, cui andrebbe riconosciuto almeno il merito di aver recuperato alla dialettica democratica la destra. Ma si sa per la sinistra questo non è un merito, ma un demerito gigantesco, un ostacolo alla sua auspicata inesauribile egemonia, a cominciare proprio dalla nomina dei presidenti della Repubblica.

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