Contro la politica delle identità e l’ipocrisia del politicamente corretto

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La politica delle identità alimentata dalla sinistra – alla disperata ricerca di nuovi elettorati, avendo perso terreno nei suoi feudi tradizionali – sta dilaniando le società occidentali, sia a livello nazionale che locale, mettendo l’una contro l’altra le comunità per appartenenza etnica, religiosa, razziale e persino di genere e di orientamento sessuale. Nel tentativo di riparare presunti torti storici e culturali, si alimentano vittimismo e rivendicazioni, disgregando anziché integrando sulla base di valori condivisi. Ne è un piccolo, ma significativo esempio la promozione del Museo Egizio a favore delle coppie di nazionalità araba (lei rigorosamente “velata” nei manifesti pubblicitari), che ha scatenato una polemica politica forse esagerata (ma si sa, questa campagna elettorale vive di espedienti e piccole miserie).

Una legittima iniziativa di marketing, o una odiosa discriminazione contro gli italiani?

Innanzitutto, una precisazione: il museo non è controllato dal governo nazionale, dal Ministero dei beni culturali, ma è gestito da una fondazione di diritto privato. Questo non significa però che appartenga a “privati”, né che lo siano i beni custoditi nel museo. Il quale è saldamente nelle mani della politica, di enti pubblici, dal momento che i soci della Fondazione sono Comune di Torino, Provincia, Regione Piemonte, e due fondazioni bancarie in cui siede il Comune di Torino.

Personalmente sono convinto che differenziare il prezzo del biglietto di ingresso a un museo su base etnica, linguistica o, diciamola tutta, “razziale”, non sia come offrire uno sconto alle coppie nel giorno di San Valentino o nel giorno del proprio compleanno. Credo che in questo caso la promozione del Museo Egizio di Torino non sia equiparabile a iniziative di marketing che a prima vista potrebbero sembrare simili, né a finalità culturali (avvicinare i giovani) e sociali (gli anziani), ma che si tratti di una discriminazione, seppure “positiva”, dettata dal politicamente corretto e dalla politica delle identità (identity politics la chiamano negli Usa, all’avanguardia anche su questo). Vogliamo definirla integrazione? Ok, integrazione – anche se rischia di produrre l’effetto opposto.

A me sembra la stessa logica per cui si cominciano a censurare opere d’arte, o cambiare il finale delle opere liriche, per non urtare la sensibilità di alcune “specie da proteggere”. In questo caso gli arabi: poveri ignoranti che trattiamo nel peggiore dei modi, come parziale forma di risarcimento cerchiamo almeno di avvicinarli alla cultura dei loro antenati (ammesso che gli arabi abbiano qualcosa a che fare con gli antichi egizi…).

La politica delle identità rappresenta una sorta di nemesi per un principio cardine dello stato di diritto come l’uguaglianza formale davanti alla legge. “Senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” recita l’articolo 3 della nostra Costituzione. Ebbene, un tempo si trattava di tutelare – giustamente – le minoranze dalle politiche discriminatorie delle maggioranze. Da qualche decennio, si usa la legge per determinare un’uguaglianza anche sostanziale, si introducono discriminazioni “in positivo” per favorire le minoranze, aiutarle a ridurre dei “gap”. Il risultato è però quello di alimentare il risentimento sia delle maggioranze che tra minoranze (ce n’è sempre qualcuna che ha meno santi in paradiso…). Non ci si sorprenda se nel suo piccolo il maschio bianco eterosessuale cristiano, divenuto minoranza senza sconti e pure additato come responsabile dei peggiori crimini, s’incazza e comincia a votare anch’egli per difendere le sue “identità”.

L’esito illiberale, negazione dello stato di diritto, della politica delle identità è che non è più l’individuo il soggetto di diritti e politiche, ma sono i gruppi, in competizione tra di loro per vedere soddisfatte dallo Stato, in modo paternalistico e clientelare, le loro rivendicazioni. Fino a tollerare “enclave” etnico-confessionali e persino forme di “legalità” parallele. Assistiamo così alla disgregazione e alla tribalizzazione delle nostre società. Laddove non è l’individuo, infatti, diventano la tribù, il clan, la fede gli interlocutori privilegiati del potere politico.

Tornando alla promozione del Museo Egizio di Torino, ciò che è inaccettabile e intellettualmente disonesto di questo dibattito è l’ipocrisia per cui scelte di marketing o discriminazioni – decidete voi – vanno bene solo quando in linea con le proprie preferenze politico-ideologiche.

Dovremmo ringraziare Giorgia Meloni, perché quanto meno sembra aver fatto scoprire alla sinistra che i beni culturali sono anch’essi “merce” da vendere e valorizzare, che può quindi essere oggetto di iniziative di marketing. Adesso che bisogna difendere il direttore del museo dagli attacchi della destra xenofoba, qualsiasi iniziativa di marketing, qualsiasi legge di mercato diventa lecita e non è più sterco del diavolo. Anche se riguarda la “Cultura”. Benvenuti! Però non lagnatevi poi quando il “marketing” non incontra i vostri gusti “etnici” e colpisce le “categorie” a voi care…

Chi abita o lavora in zone turistiche a Roma conosce il cosiddetto “doppio standard” a favore dei clienti abituali rispetto ai turisti o ai passanti. Siccome i prezzi di listino sono generalmente più alti, ai clienti abituali, per esempio chi lavora in zona, si riconosce un piccolo sconto. Marketing, fidelizzazione.

Il titolare di una discoteca può legittimamente decidere di operare “discriminazioni” o scelte di marketing all’ingresso, praticare sconti ad alcune categorie di persone, a seconda del profilo che vuol dare al suo locale. Solo donne, solo gay. Ma anche solo bianchi, o solo neri. O una prevalenza degli uni sugli altri. Se qualcuno vuole attirare clienti arabi, qualcun altro potrebbe preferire cinesi, o italiani, o toscani gratis al museo etrusco… Alcuni negozianti preferiranno avere commessi gay e palestrati, altri commesse belle, giovani, magrissime e dalla pelle bianchissima… Ma per restare nel campo della cultura, una scuola o una università potrebbero decidere di riservare una quota di borse di studio, o praticare sconti sulle rette, a ragazzi e ragazze italiani. Marketing o discriminazione?

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