La resistenza ucraina è di popolo, la nostra fu di élite e non tutta per la libertà

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È difficile poter aggiungere qualcosa di nuovo con riguardo al dibattito sulla guerra in Ucraina, perché tutto e il contrario di tutto è stato scritto e detto, sì che non rimane che far proprio un qualche punto di vista, già espresso e ribadito nei mass media. Qui mi interessa ritornare su due questioni sollevate con riguardo a quella battezzata da Putin, con ammirabile ipocrisia, come una “operazione militare speciale”, che, giorno dopo giorno, rivela la sua vera finalità: annullare l’Ucraina come stato sovrano e indipendente, se non col tentativo fallito di prendere Kiev e instaurare un governo fantoccio, certo ridimensionandola territorialmente, dopo averla completamente coventrizzata, occupandone l’intera fascia meridionale, sì da privarla di qualsiasi accesso al Mar Nero.

Una prima questione è stata non tanto la qualificazione dell’opposizione armata all’invasione come resistenza, perché come altrimenti potrebbe essere chiamata, ma l’equiparazione con la resistenza italiana, come se così si privasse quest’ultima della sua unicità assoluta e incomparabile. Ora, nel corso della guerra mondiale, non c’è stata solo la resistenza italiana, basterebbe ricordare come più significative quella francese e iugoslava, la prima caratterizzata come la nostra anche dai tratti di una guerra civile, qui contro il governo di Mussolini, oltre Alpi contro quello di Pétain.

Si può capire che l’Anpi – la quale con la norma statutaria di cui all’art. 2, lett. a) risente della sua formazione all’indomani della guerra, col richiedere ai soci una partecipazione diretta alla lotta partigiana o almeno una qualche forma di opposizione al nazifascismo in atto – cerchi di sopravvivere, rivendicando il monopolio morale dell’eredità della resistenza, finendo per mitizzarla come se effettivamente da essa fosse dipesa la liberazione dell’Italia. C’è una differenza di fondo fra la nostra esperienza e quella ucraina: la nostra è stata di élite, quella ucraina è di popolo; la nostra è stata una guerriglia di accompagnamento all’avanzata delle truppe alleate, quella ucraina è una guerra fra due forze armate; la nostra è stata una tipica guerriglia condotta con armi leggere, quella ucraina è fatta di battaglie, di trincea e di movimento, con una specie di sincretismo fra le tecniche delle due guerre mondiali. In entrambe le occasioni la provvista di armi è avvenuta da parte degli angloamericani, ieri come esclusivi, oggi come principali fornitori, ma proprio in forza della differenza fra guerriglia e guerra, allora come armi leggere, ora anche pesanti.

Ma se pure non lo si vuole evidenziare facendo ricorso al comune nemico, il nazifascismo, certo questo era l’obiettivo immediato, ma dietro c’era un dissenso di fondo circa il dopo, di quale avrebbe dovuto essere la libertà recuperata, fra partigiani comunisti e liberali, socialisti, cristiani. Cosa, questa, che pur emerse specie nel passaggio dal 1944 al 1945; e se non ebbe eco percepibile nel compromesso costituzionale, esplose subito dopo sul problema strategico del rapporto con l’Unione sovietica.

Tutt’altro è lo scenario che ci propone la vicenda ucraina: non si prospetta una riconquista della libertà per costruire una democrazia liberal-democratica o socialista, si vuole difendere la libertà che aveva già dato vita ad una democrazia occidentale, cosa di cui è perfettamente consapevole la Federazione russa, costretta a sostenere che il governo Zelensky sarebbe frutto non di un voto popolare ma di un colpo di Stato. Se si vuole è uno scontro fra due nazionalismi, ma di un ben diverso valore, che si può qualificare come positivo e negativo. Quello ucraino è la difesa di una identità nazionale, per storia, lingua, cultura, religiosa, nella sua piena integrità territoriale come storicamente determinata e internazionalmente riconosciuta, contro una parziale o totale russificazione (non per nulla è emersa in primo piano la questione della lingua); quello russo è l’espansione imperialista che sotto la giustificazione di contenimento della Nato persegue il sogno che ha caratterizzato tutta la sua storia, raggiungendo il culmine con l’Urss per poi spegnersi traumaticamente con il crollo del Muro di Berlino.

Da qui deriva la seconda questione, quella della responsabilità della guerra, dei crimini commessi, della presenza di un vero e proprio genocidio, che, mi permetto una parentesi, potrebbe esserci non solo quando si esprime in un massacro etnico ma anche quando si traduce in un completo annientamento di tutte le strutture civili, sì da rendere la vita impossibile. Si può certo convenire sul fatto che sia privo di qualsiasi senso un boicottaggio della cultura russa classificabile come patrimonio dell’umanità, peraltro fiorita in epoca zarista, ma non sulla distinzione fra Putin e la stretta cerchia degli oligarchi, da un lato, e il popolo russo dall’altro. Questo è il classico argomento con cui si cerca di sollevare a posteriori un popolo per la sua responsabilità, non solo di aver servito, ma di aver osannato il suo dittatore in ragione di un espansionismo armato che lo faceva tornare di nuovo al centro di quella storia da cui si sentiva di essere stato escluso in ragione di una vittoria mutilata o di una sconfitta.

Non c’è bisogno di andare a cercare altrove, l’argomento è stato ed è usato per Mussolini, che sarebbe stato tradito dai suoi gerarchi; ma facendo un salto al di là dei confini, lo stesso argomento è servito a scusare Hitler, di cui non esisterebbe alcun riscontro dall’aver dato semaforo alla soluzione definitiva del problema ebraico. È del tutto innegabile che questi due dittatori abbiano goduto di un vasto e convinto consenso popolare, nel nome di un riscatto nello scenario internazionale, né diverso discorso vale per Putin, cui sondaggi indipendenti riconoscono una percentuale di consensi fra il 70 e l’80 per cento, se non oltre.

Si può, si deve ricominciare dall’Ucraina, per fermare l’avanzata della Nato, dimenticando che tutti i Paesi che vi hanno volontariamente aderito hanno sperimentato per decenni lo stivale russo e temono di vederlo calcare nuovamente i loro territori; si deve col sogno di far sventolare nuovamente la bandiera rossa dell’Urss laddove è stata ammainata. È un sogno che Putin ha risvegliato. Fino a quando non sarà spento da qualcosa percepibile come una sconfitta, il popolo gli starà dietro, certo non senza una opposizione largamente minoritaria, ma incapace di invertire l’opinione pubblica come pur avvenuto negli stessi Stati Uniti, per la unicità ossessiva della propaganda di stato e per la repressione di qualsiasi forma di dissenso. Si fermerà solo quando potrà vendere come una vittoria quanto fino ad allora acquisito: non credo che il Donbass, pur allargato al di là di quello già tenuto dalle sedicenti repubbliche già riconosciute da Mosca, e la Crimea possano bastargli.

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