Le forze che si contendono il futuro della Libia e come l’Italia si è condannata all’impotenza

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Il via libera e i soldi di Riad, Washington che toglie il freno a mano: i fatti nuovi – dopo la firma italiana del MoU con Pechino – che hanno innescato la marcia di Haftar verso Tripoli

Proviamo a orientarci nella cortina fumogena delle dichiarazioni ufficiali sulla situazione in Libia, di nuovo incandescente dopo l’offensiva su Tripoli lanciata nei giorni scorsi dal generale Khalifa Haftar. Dietro gli scontati appelli al cessate il fuoco e a riprendere il dialogo, il sostegno al piano Onu e il mantra un po’ stucchevole del “non c’è soluzione militare al conflitto, ma solo politica” (però lo strumento militare può “favorire” una “soluzione politica” rispetto a un’altra…), tutti gli attori esterni dichiaranti in queste ore continuano a giocare la loro partita in Libia. Tutti, tranne l’Italia.

Un indizio ci viene fornito dai media. Le notizie provenienti dall’Lna, le forze guidate dal generale Haftar, sono molto spesso veicolate da Al Arabiya, emittente degli Emirati Arabi Uniti, mentre quelle da Tripoli, come le infuocate parole di al Sarraj diffuse ieri (il “traditore” Haftar “non troverà nient’altro che forza e fermezza”), dalla qatariota Al Jazeera.

In Libia si scontrano su fronti opposti diversi attori del mondo islamico mediorientale. Da una parte Turchia e Qatar, principali sostenitori dei Fratelli musulmani e interessati dunque a massimizzare la loro influenza nella coalizione che sostiene al Sarraj e nel processo politico. Dall’altra, Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, principali sponsor di Haftar.

Per l’egiziano al Sisi sostenere il generale della Cirenaica è una scelta obbligata, necessaria per evitare che nel futuro della Libia ci sia spazio per i Fratelli musulmani. Una questione di sicurezza nazionale per il Cairo, che non può permettersi al confine occidentale una Libia governata dagli integralisti islamici messi al bando in Egitto, che hanno già dimostrato la loro abilità nel cavalcare i processi elettorali per conquistare il potere. Ma al tempo stesso, c’è gelosia tra gli stessi sponsor di Haftar: il Cairo e Riad sono accomunati dall’opposizione ai Fratelli musulmani, ma rivali nel cercare di condurre le danze e, quindi, nel contendersi un rapporto privilegiato con il generale, a sua volta abile nel farsi corteggiare a seconda delle sue convenienze del momento.

La Russia vede nella Libia una ghiotta opportunità per piantare la sua bandiera su un altro Paese, dopo la Siria, che si affaccia sul Mediterraneo, ma ancora più a occidente e vicino all’Europa. Aggressione all’Ucraina, intesa con la Turchia di Erdogan, Siria e ora Libia: una manovra avvolgente. Il vice ministro degli esteri Bogdanov ha confermato, nel corso di una telefonata con il generale Haftar, il sostegno di Mosca a una “soluzione politica”. Chiarissimo quale sia per la Russia “la” soluzione politica.

La Francia cerca non da oggi di sostituire la sua influenza a quella italiana, diventando quindi il dominus europeo in tutto il Nord Africa. Sulla Libia “Italia e Francia sono sulla stessa linea”, ha assicurato sabato scorso il ministro degli esteri francese Le Drian. Sarà… però registriamo che al Sarraj ha fatto convocare l’ambasciatore francese in Libia, Béatrice du Hellen, per protestare ufficialmente per il sostegno di Parigi ad Haftar. Se Francia e Italia sono “sulla stessa linea”, perché non è stato convocato anche l’ambasciatore italiano?

Insomma, la situazione in Libia non si può leggere se non attraverso la rivalità tra le due monarchie del Golfo, gli al Thani e i Saud, e gli interessi di Egitto, Russia e Francia. Impensabile immaginare che Haftar abbia avviato la sua offensiva senza ricevere luce verde da Riad e Abu Dhabi, dal Cairo, da Mosca, ma anche un assenso chissà quanto tacito di Parigi.

Riscostruire la cronologia degli incontri delle ultime settimane ci aiuta a intravederne le mosse. Il 28 febbraio, ad Abu Dhabi, l’incontro concluso da una stretta di mano tra al Sarraj e Haftar, a sancire l’intesa su elezioni entro fine anno. Sembra la svolta, ma il vertice non dev’essere andato così bene. Il 10 marzo al Sarraj vola a Doha da al Thani e il 20 ad Ankara da Erdogan. Il 27-28 marzo Haftar incontra a Riad prima re Salman poi il delfino Mohammed Bin Salman, ricevendo probabilmente luce verde e la garanzia delle risorse necessarie per l’attacco finale a Tripoli. Sabato scorso il ministro degli esteri russo Lavrov si trovava al Cairo, a colloquio con l’omologo egiziano Shoukry, un incontro che aveva tutta l’aria di un punto sull’offensiva appena lanciata. Pochi giorni prima, altri meeting molto significativi: egiziani ed emiratini a Parigi, poi l’incontro tra diplomatici nell’ambasciata libica di Roma, in cui c’erano praticamente tutti, anche americani e francesi, tranne l’Italia.

Già, e l’Italia? Sembra non riuscire più a toccare palla in Libia, isolata e paralizzata. Eni ha dovuto evacuare il suo personale. Improbabile però che l’offensiva di Haftar abbia colto di sorpresa il governo italiano. I segnali, sia sul terreno che diplomatici come visto, non sono mancati e non saranno sfuggiti alla nostra intelligence. Il problema, però, è che siamo rimasti privi di risorse politiche, di carte da giocare, di numeri di telefono da chiamare. Come ricorderete, nel luglio scorso il premier Conte era tornato da Washington con la promessa di una “regia comune” Italia-Usa sulla Libia. Che fine ha fatto? Ci ha dato l’impulso per organizzare la conferenza di Palermo, ma da allora molte cose sono successe. Il Venezuela, gli F-35, ma soprattutto la nostra adesione alla nuova Via della Seta. Solo una coincidenza temporale, se a pochi giorni dalla firma del MoU con Pechino, il 23 marzo, ci troviamo con Haftar alle porte di Tripoli? Solo da Washington sarebbe potuto arrivare un alt a Riad, ma come potevamo pensare di chiedere e ottenere aiuto dall’alleato che avevamo appena tradito?

La sensazione è che proprio in quei giorni sia venuto meno il freno Usa ad Haftar, che gli americani si siano scansati, lasciando campo libero a sauditi e francesi. Anche fisicamente: il Centro di comando Usa per l’Africa ha evacuato nelle scorse ore il suo personale da Palm City, a ovest di Tripoli, per il deteriorarsi delle condizioni della sicurezza sul terreno.

Tranne che per le operazioni anti-Isis, la Libia non è mai stata al centro degli interessi dell’amministrazione Trump e forse proprio per questo era più che aperta a delegare il dossier della sua stabilizzazione agli alleati nella regione. Avevamo ottenuto questa sorta di delega, ma ci siamo fatti superare da Riad e Parigi.

Gli interessi italiani sono certamente stati compromessi dalla guerra del 2011 e dalla rimozione violenta di Gheddafi, con il quale avevamo faticosamente raggiunto un equilibrio, ma sono passati ormai otto anni e da allora gli errori commessi dai governi che si sono succeduti a Roma si sono sommati, uno sull’altro – a partire dall’illusione che le fazioni in lotta e gli interessi in gioco si potessero ricomporre attraverso il processo guidato dalle Nazioni Unite, che invece, come al solito, è stato usato da tutti come paravento delle proprie manovre.

Abbiamo da subito puntato sul cavallo sbagliato, quello individuato “a tavolino” dall’Onu, sottovalutando la forza degli interessi che si muovevano dalla parte di Haftar. Abbiamo permesso che per oltre un anno i nostri rapporti con al Sisi restassero tiepidi a causa del caso Regeni. Non ci siamo accorti che nel frattempo la nuova amministrazione Usa aveva capovolto la politica mediorientale di Obama, tornando al fianco degli storici alleati – Riad e il Cairo – mentre noi ci facevamo “comprare” sempre più dal Qatar. Gli sforzi italiani di recuperare terreno con il generale sono culminati con il vertice di Palermo, preso malissimo infatti da Fratelli musulmani e Turchia.

Come si è mosso il governo gialloverde nelle ultime settimane? Basti pensare che mercoledì scorso, ironia della sorte, mentre Haftar lanciava la sua offensiva, il presidente del Consiglio Conte era dai suoi nemici a Doha, per rafforzare i legami con il Qatar, ricambiando la visita in Italia dell’emiro al Thani nel novembre scorso. Prima di Conte, il 25 e 26 marzo, era passata per Doha anche il ministro della difesa Trenta. Tra parentesi, ma non troppo: solo nel 2014 la Qatar Charity ha finanziato 45 progetti di nuove moschee e centri islamici nel nostro Paese, per un valore di 22 milioni di euro, su un totale di 113 progetti da 71 milioni in tutta Europa.

Ora: che il generale Haftar tenti l’azzardo di prendere Tripoli, rischiando di bruciarsi e in ogni caso di spargere troppo sangue, o che (più probabilmente) la tenga sotto assedio, il fatto compiuto davanti al quale ha messo la comunità internazionale è che al Sarraj, politicamente, è sempre più uno zombie destinato a uscire di scena, e che saranno lui e i suoi sponsor a dare le carte, forse già alla conferenza Onu di Gadames del 14 aprile.

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