M5S costola del Pd e Di Maio sul “binario Alfano”. Non un matrimonio contro natura, ma un governo fragile che non sgonfierà i sovranisti

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Superato l’ultimo ostacolo, il voto degli iscritti alla piattaforma online Rousseau, il governo Conte-bis sostenuto da Movimento 5 Stelle e Partito democratico è in dirittura d’arrivo. Viviamo un’epoca di grandi contraddizioni e l’Italia non fa eccezione, anzi… Non c’è da stupirsi. Può sembrare paradossale, ma come quella con la Lega, anche l’alleanza dei 5 Stelle con il Pd non è del tutto innaturale.

Se Lega e 5 Stelle avevano come collante la carica anti-establishment ed euroscettica, la critica alla globalizzazione, quindi condividevano una certa sintonia con il mood attuale dell’elettorato in tutte le democrazie occidentali (chi più chi meno), erano però molto divergenti sulle politiche – dall’idea di sviluppo alla giustizia, dalla politica fiscale a quella estera – e nelle rispettive constituency elettorali (le regioni del Nord la Lega, quelle del Centro-Sud il M5S). Viceversa, il Movimento non condivide certo con il Pd il sentimento anti-casta o l’euroscetticismo, ma molti contenuti – dal lavoro all’ecologismo, dal fisco alla giustizia – sono sovrapponibili o almeno componibili.

Come abbiamo cercato di ricostruire in una indagine di Atlantico dopo il voto del 4 marzo 2018, il Movimento di Beppe Grillo muove i primi passi (i V-Day) dall’antiberlusconismo e dal giustizialismo, ma non solo. È il Movimento dell’acqua pubblica e del tutto pubblico. È il prodotto non intenzionale, ma più coerente, dell’opposizione populista e demagogica del centrosinistra e dei suoi opinion leader ai governi Berlusconi, che ha letteralmente plasmato la cosiddetta “anti-politica” e, peggio, alimentato le aspettative di milioni e milioni di elettori in senso giustizialista, statalista e massimalista, convincendoli che bastasse mandare al potere gli “onesti” al posto dei “corrotti” (sempre gli avversari) e redistribuire ricchezza senza crearne di nuova. Il M5S entra in conflitto con il Pd (ribattezzato Pd meno L), puntando a sostituirsi ad esso, perché reo di inciuciare con lo “Psiconano” e di non essere coerente con la sua stessa propaganda. Alla fine, il centrosinistra è rimasto vittima del suo stesso populismo, della distanza sempre maggiore tra le aspettative spacciate dal pulpito dell’opposizione ai governi Berlusconi e la realtà delle sue politiche (mai abbastanza assistenzialiste e giustizialiste) quando si è ritrovato al governo.

Il Movimento che ha preso il 34 per cento alle politiche del 2018 si è gonfiato però non in opposizione a Berlusconi, ma durante i governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni, cioè i governi del Pd allineati a Bruxelles e all’asse franco-tedesco. Questo spiega perché ha raccolto voti sia da destra che da sinistra e non sia stato così innaturale andare al governo con la Lega: con essa aveva condiviso fin dal 2011 l’opposizione allo stesso sistema di potere, quello del Pd e di Bruxelles.

Ma con uno sguardo alla fase iniziale del Movimento, non è innaturale nemmeno il matrimonio con i Dem: quella con il Pd è sempre stata anche una rivalità interna alla sinistra. Il Movimento massimalista, quello più “puro”, che avrebbe dovuto sostituirsi ai “corrotti” riformisti incapaci di abbattere il nemico, con il quale anzi sono accusati di inciuciare. Ormai fuori causa Berlusconi, ora che i “nuovi barbari” fanno paura, non sono più al 17 ma al 34 per cento, e che al Nazareno non c’è più il “Renzusconi”, ecco che l’odio reciproco viene messo da parte, viene siglata la tregua e riemergono le convergenze ideologiche e programmatiche tra Pd e 5 Stelle.

Due piccoli, grandi problemi però per il Movimento. Il primo è nel rapporto con quegli elettori che nel 2018 l’hanno votato proprio per non essere costretti a scegliere tra la Lega e il Pd. Cosa faranno, ora che si è alleato una volta con la prima e un’altra con la seconda? Due strambate in rapida sequenza che potrebbero averne gettati in mare la gran parte. Secondo problema: quello che ha sfondato alle scorse politiche e ha governato con la Lega è il Movimento post-ideologico che ha combattuto il Pd sia da destra che da sinistra. Nel Conte-bis quel Movimento del 34 per cento non esiste più. Il rischio, ora, è che prevalendo la sua anima di sinistra, venga riassorbito nel campo progressista come costola del Pd anziché riuscire a sostituirsi ad esso, che si compia quel processo di trasformazione, divenuto palese con il voto per Ursula von der Leyen al Parlamento europeo, da forza anti-sistema ed eurocritica a forza pienamente inserita nel sistema di potere italiano ed europeo. Mentre Di Maio imboccherà quello che chiamerei il “binario Alfano”, un binario politicamente morto, una progressiva marginalizzazione dalla quale difficilmente riuscirà a sottrarsi, Conte si proporrà come “Papa straniero” di una futura coalizione di centrosinistra e il Pd con i suoi tecnici d’area e la sponda del Quirinale occuperà tutto l’occupabile, come abbiamo più volte sperimentato.

Non un matrimonio contro natura, dunque, semmai la genesi di questo governo dovrebbe destare perplessità e preoccupazione, per lo stress, la tensione che rischia di alimentare tra Palazzi e corpo elettorale – un fattore evidentemente trascurato dal Quirinale in una gestione della crisi volta a determinare una maggioranza numerica più che politica nel Palazzo. Nasce in pochissimo tempo un governo tra due forze che fino a ieri non solo si sono combattute, ma odiate visceralmente, la cui necessità quindi può non essere compresa dai loro stessi elettori, in assenza peraltro di una vera “emergenza”, avvertita invece nel 2011. L’emergenza stavolta sarebbe di natura democratica, antifascista. Come molti osservatori e anche esponenti della nuova maggioranza hanno ammesso, il governo nasce per mero opportunismo, per scongiurare un voto anticipato che avrebbe consegnato il Paese (e il prossimo inquilino del Colle) al “truce” Salvini. Ma ieri con Berlusconi, oggi con Salvini, questo uso strumentale dell’accusa di fascismo (o peggio), per demonizzare e delegittimare l’avversario politico (vincente) di turno, fino al punto di temere il responso delle urne e aggirare la volontà popolare con manovre di palazzo, è ciò che ci impedisce di avere una democrazia matura e governi stabili.

Secondo alcuni sondaggi, il nascituro governo godrebbe del gradimento di appena il 35 per cento dell’elettorato, contro il 55 del governo gialloverde fino all’inizio della crisi. Su questi presupposti, a cui si aggiungono le profonde divisioni interne a Pd e 5 Stelle, i vincoli di bilancio, il ritorno a una politica di porti e confini aperti, difficilmente saprà conquistare la fiducia dell’opinione pubblica. Il rischio è che i due partiti sovranisti, già molto forti, intercettino tutto il malcontento generato, gonfiando ancor di più i loro consensi. L’ostinazione a voler concludere a tutti i costi le due legislature precedenti non ha sortito i risultati sperati. Né dopo la crisi finanziaria del 2011, né dopo lo stallo elettorale del 2013 e le successive crisi di governo si è voluta ridare la parola agli italiani. Si è scelto invece di dar vita a governi tecnici o politici dalla scarsissima legittimazione popolare, nella speranza di sgonfiare i cosiddetti populisti, ottenendo però l’esito opposto: 5 Stelle e Lega al governo. Nulla indica che questa volta andrà diversamente con Salvini.

Eppure, un altro paradosso è che alla maggior parte degli attori coinvolti in questa crisi sarebbe convenuto il voto anticipato. Al Movimento 5 Stelle, che avrebbe potuto far leva sul tradimento di Salvini. Non di rado chi chiama una snap election non raccoglie i risultati sperati. Una piccola indicazione in questo senso la offrono le telefonate degli ascoltatori di Radio Radicale durante la crisi: fortemente critiche nei confronti di Salvini dopo l’8 agosto e il dibattito in Senato del 20, il vento è virato in direzione contraria al governo Pd-M5S non appena l’ipotesi ha preso corpo. Il Pd avrebbe potuto giocare sul fallimento dei populisti al governo, il segretario Zingaretti sottrarre a Renzi il controllo dei gruppi parlamentari anziché mettersi nelle sue mani. Perché questa paura del voto? Curiosamente i sondaggi di questi giorni attribuiscono a Pd e 5 Stelle oltre il 42 per cento dei consensi e il 33 a Salvini. Perché non presentare agli elettori la loro alleanza? La partita sarebbe stata aperta più di quanto si potesse immaginare… Ma forse qualcuno, in Italia e in Europa, non ha voluto correre il minimo rischio della democrazia, in un Paese sotto tutela ormai dal 2011…

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