Il “malessere demografico”: da dove arriva e come affrontarlo

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Il tema è di quelli cruciali per il nostro futuro, ma poco trattati. E quando è trattato, troppo spesso si affronta in modo ideologico. Non è il caso di un libro da poco uscito, “Italiani poca gente. Il Paese ai tempi del malessere demografico”. Ne abbiamo parlato con Marco Valerio Lo Prete, giornalista Rai e autore del libro insieme al professor Antonio Golini*.

Federico Punzi: Partiamo dal titolo, perché “malessere” e non calo o crollo demografico? Solo un modo per distinguersi dalle espressioni-tipo, o dietro quel “malessere” si vuole alludere a una condizione in qualche misura soggettiva, quasi psicologica?
Marco Valerio Lo Prete: Quella del “malessere demografico” è una formula coniata dal professore Antonio Golini in tempi insospettabili, quando la preoccupazione preminente tra gli osservatori era ancora quella che nasceva dallo scenario opposto, ovvero dalla eccessiva vitalità demografica e quindi dalla “bomba demografica”. Il termine “malessere” è più adatto a descrivere la situazione italiana rispetto al solo “calo” o “crollo demografico” che pure c’è. Perché denota una situazione complessiva di marcato squilibrio nello sviluppo della popolazione, tra bassissima natalità e intenso invecchiamento. L’Italia, infatti, è stata il primo Paese al mondo a raggiungere un tasso di fecondità di 1,19 figli per donna nel 1995, mentre la soglia per mantenere uno stato stazionario della popolazione è 2,1. Allo stesso tempo il nostro è stato il primo Paese in cui è diventato statisticamente più probabile incontrare per strada un ultra sessantacinquenne piuttosto che un minore di 15 anni. L’allungamento della speranza di vita, per esempio, è una buona notizia per tanti di noi. Tuttavia col termine “malessere” l’enfasi viene posta sulla difficile transizione in corso. Nella categoria del “malessere” che abbiamo utilizzato in questo libro rientrano dunque sia l’alterazione della struttura della popolazione italiana sia le gravi conseguenze biodemografiche di tale mutamento: condizioni di malessere economico, sociale, culturale e anche psicologico.

FP: Di demografia si è parlato e, tutto sommato, si parla poco ancora oggi. Destano allarme, periodicamente, le statistiche e gli studi dell’Istat, ma poi il tema fatica a guadagnare centralità nel dibattito pubblico e politico, soprattutto se pensiamo ai numeri impietosi e alle ricadute negative di una società che invecchia sulla nostra economia, per esempio sul debito pubblico. Sembra un tabù in particolare parlare di politiche a favore della natalità, che vengono bollate come attacchi al ruolo della donna e alla parità di genere. Perché? Pesano pregiudizi ideologici e culturali?
MVLP: Pregiudizi ideologici e culturali hanno influenzato a lungo questo dibattito, troppe volte silenziandolo completamente. In Italia, in particolare, per decenni le politiche per la natalità sono state associate quasi esclusivamente alla memoria del regime fascista. Poi un filone oltranzista dell’ecologismo, influenzato soprattutto dalle analisi sulla “bomba demografica” mondiale, ha impedito un’analisi ponderata degli squilibri tutti italiani ed europei della popolazione. A ridosso del 1968, inoltre, è iniziata quella che alcuni studiosi – come Richard Sennett e Christopher Lasch – hanno definito l’età del narcisismo, dell’ossessione di sé, un presentismo che ha contribuito a renderci generalmente meno vincolati alle catene delle generazioni: ha iniziato a contare meno l’eredità degli antenati e anche il lascito per i discendenti. Tutti fattori che hanno alimentato quella che il professor Golini non si stanca di definire la concezione soltanto “individuale” del figlio, rispetto a una concezione – come esiste in Francia – che è allo stesso tempo “sociale” e positiva. Aggiungiamoci una certa nostra allergia a un dibattito pubblico fondato quanto più possibile su dati numerici. Infine, come afferma acutamente Piero Angela nella prefazione di “Italiani poca gente”, gli uomini e ancor più le società tendono a reagire di fronte a un pericolo quando questo è direttamente visibile, non quando è necessario simularlo mentalmente. E i mutamenti demografici, per decenni, sono stati radicali, ma poco visibili ai più. La “veduta corta” ha prevalso, insomma, su una prospettiva di medio-lungo termine. In controtendenza, però, occorre segnalare che nella campagna che ha preceduto le ultime elezioni politiche in Italia, tutti i principali partiti avevano nei propri programmi qualche proposta in tema di demografia.

FP: Si discute molto di come rendere sostenibili, per una popolazione che invecchia, la spesa per le pensioni e per la sanità. In particolare, ci viene presentata come inevitabile l’equazione allungamento dell’aspettativa di vita, aumento dell’età pensionabile e alleggerimento degli assegni. Ma cercare di affrontare questi temi senza chiamare in causa il calo demografico e la natalità, non è un po’ come pensare di ridurre il rapporto deficit/Pil senza agire sul denominatore?
MVLP: Formazione continua e invecchiamento attivo sono due sfide su cui l’Italia non può glissare, e non soltanto per tenere i conti pubblici in ordine. Discutere esclusivamente di aumento dell’età pensionabile, in effetti, vuol dire mantenere un approccio quantomeno parziale, dettato forse da una visione solo “contabile” del problema. Una piena sostenibilità del nostro welfare non può che passare, invece, per un incremento generalizzato della produttività del lavoro e del capitale nel nostro Paese, oltre che per il ristabilimento di un equilibrio complessivo della nostra popolazione.

FP: Perché la situazione demografica è così diversa tra Europa, Italia in particolare, da una parte, e Nord America dall’altra? Eppure, benessere e urbanizzazione sono fenomeni che hanno riguardato tutte queste società, così come istruzione diffusa e affermazione di culture individualiste/edoniste. Si può parlare di un “fattore geografico”, legato ai grandi spazi, o di un eccessivo ruolo, paradossalmente, del welfare state europeo?
MVLP: La natalità sta subendo un calo significativo anche negli Stati Uniti. Il tasso di fecondità nel Paese è arrivato a 1,8 figli per donna, distante dai 2,12 figli per donna di dieci anni fa, dunque è oggi sotto la soglia di 2,1 necessaria a mantenere stabile una popolazione al netto dell’immigrazione. L’Unione europea fa peggio con 1,6 figli per donna, l’Italia molto peggio con 1,3 figli per donna. All’interno di questo calo generalizzato che dunque investe tutto l’Occidente, seppure con intensità diverse, è possibile pure fare alcune ipotesi sul ruolo giocato da un certo tipo di welfare state. Secondo diversi studiosi, per esempio, l’introduzione nel nostro continente di un sistema pensionistico pubblico e generalizzato a partire dall’ultimo decennio dell’800, con l’obiettivo di far fronte alle esigenze di una popolazione sempre più anziana e malata, avrebbe contribuito a ridurre i tassi di fecondità. In breve tempo, infatti, i figli avrebbero perso sempre più la loro funzione di “assicurazione” per il futuro, e allo stesso tempo la necessità di contribuire a schemi previdenziali avrebbe ridotto il reddito disponibile dei potenziali genitori, scoraggiando la procreazione. Un possibile insegnamento di tutto ciò? Per tutte le politiche pubbliche tese a correggere gli scompensi demografici – siano esse politiche di immigrazione delle quali sarebbe improvvido non considerare le conseguenze sociali e culturali, siano esse politiche assistenziali – è da preferire un approccio gradualistico e riformistico, che tenga conto delle conseguenze non intenzionali delle azioni intenzionali.

FP: Infine, questo malessere demografico è ormai un dato ineluttabile con il quale fare i conti secondo una logica di mera “riduzione dei danni”, o è immaginabile invertire la rotta? E nel secondo caso, quali politiche sarebbero necessarie?
MVLP: “Ridurre i danni” dello shock demografico in corso ormai da anni nel nostro Paese sarebbe già meglio che fare nulla. Dopodiché, la storia dimostra come non sia sempre vero l’adagio di Auguste Comte secondo il quale “demografia è destino”. Il tema va affrontato subito. Come scrivo con il professor Golini, non sarà certo la lezione di un demografo, con le sue statistiche allarmanti o le sue proiezioni pur dettagliate e precise, a spingere una coppia a fare un figlio o un figlio in più. Quel che una classe dirigente – non solo politica – ha il dovere di fare, però, è non negare l’esistenza di un problema, ma discuterlo pubblicamente in tutte le sue sfaccettature. Se si riaffermerà la convinzione che un figlio non è soltanto un fatto individuale ma è – dal punto di vista razionale – un bene collettivo positivo, potremo essere fiduciosi. Da un simile comportamento delle nostre élite, discenderebbero politiche pubbliche e comportamenti personali più favorevoli alla natalità e a un invecchiamento attivo.

*Antonio Golini è professore emerito alla Sapienza, dove ha insegnato demografia per oltre cinquant’anni. Insegna sviluppo sostenibile alla LUISS. Accademico dei Lincei, è stato presidente dell’Istat e presidente della Commissione su popolazione e sviluppo all’Onu.

*Marco Valerio Lo Prete è giornalista del Tg1. Già vicedirettore de Il Foglio e collaboratore di Radio Radicale.

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