Troppo “POCO” ci sta sommergendo: una comunicazione pre-compilata

I termini ammessi sono sempre quelli e anche i “creativi” della pubblicità di adeguano: le imprese non vendono prodotti, ma messaggi etico-sociali

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Inizia con un ossimoro questa minima analisi, che, comunque, ha il sapore del grido d’allarme su quanto POCO ci stia sommergendo sempre più. Ma cosa diavolo sarà questo POCO? Semplice: il politically correct. Chi ha la sfortuna di leggermi da anni ben saprà della mia personale battaglia contro il politicamente corretto e tutto ciò che ne deriva.

Modelli pre-compilati

Siamo giunti al punto del ragionamento mediato, dell’autocensura, del timore di esprimere liberamente la nostra opinione, travolti dalla fiumana di esternazioni fatte con lo stesso logoro stampino; senza quasi avvedercene, proprio mentre s’inneggia a quanto sia bello vivere in un Paese dove chiunque possa dire ciò che vuole, lo facciamo seguendo uno schema rigidissimo che ci è stato imposto.

Per essere più preciso, temo che stia trionfando una comunicazione fatta su modelli pre-compilati, con una sorta di “menù a tendina” da far scorrere sul monitor per scegliere quali termini, e solo quelli, sia lecito scegliere per dire qualcosa in pubblico.

Ciò che, ancor di più, preoccupa è che quei pochi termini concessici li abbiamo validati noi stessi, ammantandoli della ufficialità e inderogabilità che magari non hanno. Dalla pubblicità (specchio dei tempi di un’epoca) alle comunicazioni ufficiali del potere politico, per giungere persino ai titoli dei libri e dei film, i termini ammessi sono sempre quelli. Se esci dal POCO “sei fuori”, direbbe Flavio Briatore.

Non ripeterò il mio disprezzo per quel lessico untuoso e farisaico, che va da certi aggettivi come “inclusivo” o “resiliente” per giungere a sostantivi ridicoli e sgrammaticati come “problematica” o “tempario”, ma la sostanza è quella.

I “creativi”

Scrivevo, poche righe sopra, del ruolo che riveste la pubblicità in genere, trainata dalla locomotiva televisiva, per capire in quale società e in quali tempi viviamo. In quel convoglio che qualche scombinata direzione ferroviaria ha voluto e formato, dovrebbero trovare libero spazio i c.d. “creativi”.

Partiamo da loro: il vocabolario Treccani così li definisce:

creativo, s. m. (f. -a) Nella tecnica della pubblicità, chi ha il compito di ideare i testi e le immagini per la campagna pubblicitaria di un prodotto, suggerendo proposte che siano insieme inedite e persuasive, capaci di raggiungere con immediatezza i fini prefissati.

Essendo una definizione certamente qualificante in senso professionale, ossia indicante un ruolo che dovrebbe basarsi sulla capacità di innovare, manifestando doti di fantasia, originalità ed efficacia comunicativa, si potrebbe pensare a figure professionali di veri artisti, semmai orgogliosi precursori del linguaggio futuro. Stiamo forse, invece, parlando di mezze-maniche che si attengono rigorosamente a quella terminologia imposta loro e con quelle immagini tutte uguali? No, mi sbaglio io…

Pubblicità politicamente corretta

Orbene, ditemi voi quanta originalità vi sia nel far comparire, in oltre il 90 per cento delle pubblicità, un figurante di colore ed almeno nel 30 per cento delle stesse, una scena che ammicchi all’omosessualità, meglio ancora, se ci mettiamo pure una persona vistosamente sovrappeso.

Assolutamente niente contro quelle persone, sia ben chiaro, e suppongo che chi mi legge lo sappia, ma ciò farebbe pensare ad una specie di “velina” in stile Minculpop, e non mi si venga a dire che trattasi di casualità o che le percentuali da me indicate siano distanti dalla realtà.

Negli ultimi quaranta-cinquant’anni della mia insignificante esistenza mi sono sempre più spesso sentito ripetere che “bisogna legare l‘asino dove vuole il padrone”, ma sarò libero di chiedermi chi sia il padrone e chi il somaro? Pensate che sciocchino sono: credevo che la pubblicità servisse a vendere i prodotti di chi la commissiona e paga.

E invece no: serve a “far passare“ (altro termine che suggerisco di non utilizzare in mia presenza) messaggi etici, morali, dirigistici. Verrebbe da chiedersi, se ammettiamo che la pubblicità abbia tali altissime finalità, chi detenga un ruolo così importante, benché, stranamente, la nostra Costituzione (pardon: la-costituzione-più-bella-del-mondo) non definisca chi detenga tale ruolo superiore.

Nella mia immensa disinformazione ed ingenuità, tanto per fare uno di quegli esempi al piano di campagna che tanto mi piacciono, non sapevo che le banche avessero la finalità di donare a piene mani serenità, fiducia nel futuro, certezza di contare su di loro come un generoso e comprensivo partner di lavoro.

Tutto ciò avviene proprio in questi tempi in cui sciocchezzuole come il tasso variabile dei mutui oppure i finanziamenti che non si riescono a chiudere, sembrano costituire una preoccupazione per qualche milioncino di nostri connazionali, togliendo loro il sonno. Tranquilli, cari amici, evidentemente mi sbaglio, oppure, per avere questo sentore, frequento soltanto dei pezzentoni, ma state certi che mettere nel portafoglio la foto del vostro direttore di banca vi darà tanta, ma tanta serenità. Ci state prendendo per il culo?

Mangiamo in fretta e magari non proprio nel modo più salutare? Anche a questo inconveniente pone rimedio la generosa e finissima pubblicità che, proprio a quell’ora, ci fa veder signore sedute sul cesso che disquisiscono sui loro pannolini, oppure immagini di giovani che sbevazzano birra come non ci fosse un domani (sputandola persino a spruzzo sui loro divertiti amichetti), per non parlare di certi appetitosi approfondimenti sui parassiti di cani e gatti, con tanto di ingrandimento dei simpatici animaletti microscopici.

Se, anni addietro, si sorrideva, magari senza vantarsi di avervi eventualmente mai partecipato, per la “sagra del rutto”, comunque non qualificandola come una manifestazione elegantissima, oggi sembriamo essere tutti diventati di forte stomaco ma dal non altrettanto robusto pensiero.

In buona sostanza, una volta esibite quelle figure di riferimento che consentono l’apposizione del bollino “POCO”, che a molti possa dare fastidio indugiare su certi particolari non indispensabili a quella pubblicità, va bene tutto.

L’importante è il messaggio

Nonostante si spendano miliardi di danaro pubblico nell’istituzione e, ancor di più, nel mantenimento di certi baracconi pubblici che dovrebbero favorire l’ormai inflazionata “inclusione”, evidentemente, si richiede oggi alle imprese di diffondere i più sentiti messaggi sociali. Che le imprese si mantengano attive, sane, in grado di dare posti di lavoro e capaci di far crescere la nostra economia, pare importare pochino: l’importante è che veicolino dei messaggi sociali, ormai sempre gli stessi.

Mai vista una pubblicità che si limiti a dire: ”i nostri prodotti sono fatti bene e durano nel tempo”. No: adesso bisogna dire: “I nostri prodotti sono bio, ecocompatibili, equi e solidali, combattono il riscaldamento globale, sono carbon-free e rigorosamente fatti all’interno di un’azienda inclusiva e dove si rispettano le quote rosa”.

Che, poi, i prodotti che escono da quella ditta facciano cagare, e per alcune aziende alimentari proprio ciò avviene non di rado, non importa un fico secco a nessuno. POCO sempre, ma soltanto talvolta buono.

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