Dalla Thatcher a Theresa May, si riparte da tre “No”: lo scontro finale interno ai Tories che può decidere Brexit

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Non c’è due senza tre, recita l’adagio. E Westminster non ha fatto eccezioni: l’accordo May-Bruxelles per il ritiro del Regno Unito dall’Ue è stato bocciato per la terza volta. Con margine meno ampio delle due precedenti, ma per ben più di una manciata di voti. Un triplice no che rimanda a un altro celebre “No, No, No”. Quello dell’ottobre 1990 pronunciato nella House of Commons dall’allora primo ministro (ancora per poco) Margaret Thatcher. Erano i giorni in cui prendeva forma l’Europa di Maastricht, il passaggio dalla CEE all’UE, dalla Comunità europea all’Unione europea, e la Thatcher rispondeva con tre sonanti “No”, in un dibattito ai Comuni, al presidente della Commissione Delors che da Bruxelles annunciava la cessione di sovranità nazionale alle tre principali istituzioni della nascente unione politica: il Parlamento europeo, quale corpo legislativo democraticamente eletto, la Commissione come potere esecutivo e il Consiglio dei ministri Ue come una sorta di Senato. Geoffrey Howe si sarebbe dimesso dal governo due giorni dopo i tre “No” della premier, che di lì a poco avrebbe lei stessa lasciato Downing Street scaricata dal suo partito.

Allora vinse l’ala europeista. Ma siamo sempre lì: oggi come ieri tutto passa per la divisione interna ai Tories sul rapporto che il Regno Unito deve avere con il continente europeo e chi riduce l’attuale caos a una banale lite di condominio, a una irresponsabile rissa scatenata per ambizioni personali (per carità, ci sono anche quelle) mostra di non conoscere la storia politica britannica. D’altra parte, 13 anni circa ci hanno messo per entrare, nel 1973, traumatico è stato il passaggio di Maastricht (hanno dovuto pugnalare la Thatcher), era lecito aspettarsi qualcosa di simile anche nell’uscita. No, ci sono ragioni politiche e culturali profondissime nel travagliato processo decisionale dei Tories e di Westminster sulla Brexit. Se, quanto e come lasciarsi coinvolgere nelle vicende del continente è un tema costante, plurisecolare, della politica britannica. La tensione irrisolvibile tra l’identità isolana, la vocazione atlantica, quindi “globale” della Gran Bretagna, e il suo legame conflittuale ma inscindibile e fruttuoso con il continente. La miopia della leadership Ue in questi anni è stata di non riconoscere la specificità di questo rapporto e questa sorta di “eccezionalismo” britannico, mostrando un dogmatismo e una rigidità che presto o tardi si riveleranno incompatibili con la tenuta stessa dell’Unione e le specificità di ogni nazione.

Con la vittoria del Leave al referendum del 2016 l’ala euroscettica dei Tories si era presa una mezza rivincita rispetto al 1990. Ma in Parlamento non aveva i numeri per guidare da Downing Street l’implementazione della Brexit. In fondo, sia il negoziato di David Cameron e la sua promessa di convocare un referendum sulla permanenza nell’Ue, che la premiership di Theresa May per concretizzare la Brexit dopo la vittoria del Leave, non sono stati che tentativi per risolvere con un compromesso il lacerante conflitto interno ai Tories sulla membership Ue. Tentativi però sabotati innanzitutto da Bruxelles, che ha fatto tornare a mani vuote, e persino umiliato, i due premier.

Ora la sensazione è che il nodo Brexit non verrà risolto se non passando attraverso una resa dei conti all’interno del Partito conservatore. Come ha brillantemente osservato Allister Heath sul Telegraph, sembra inevitabile “la madre di tutte le battaglie per l’anima dei Tories”. Le tensioni e le divisioni interne al partito sembrano così estreme e irriconciliabili che una qualche sorta di scissione sembra inevitabile. Una parte deve prevalere e l’altra soccombere, è semplice. È una scelta che i Tories non possono più evitare. E che sia un Brexiter o un Remainer a prendere il controllo del partito dopo la May, sembra difficile anche evitare nuove elezioni. L’uscita di scena della May, secondo Heath, “la leader sbagliata al momento sbagliato”, può “resettare” e riavviare il sistema politico britannico bloccato.

Il Parlamento non lo ritiene un’opzione, ma a questo punto il no deal appare come la soluzione migliore, e di certo non la catastrofe che viene paventata, come ha ripetuto in questi giorni l’ex governatore della Bank of England Mervyn King. La realtà tuttavia è che il “Project Fear” che non ebbe la meglio nel 2016 sulla maggioranza dei votanti al referendum, sta avendo la meglio oggi sulla maggioranza dei deputati e della classe politica. Così terrorizzati da preferire la revoca dell’articolo 50. È questo uno degli esiti che la premier May aveva agitato per provare a convincere i Brexiteers a votare per il suo accordo. A cui si è aggiunta negli ultimi giorni la mossa della disperazione, la promessa di farsi da parte in caso di approvazione, che però evidentemente non ha convinto abbastanza Brexiteers.

Anche perché gli elettori non sono stupidi. Se a causa della bocciatura di un accordo che un po’ tutti hanno ormai compreso essere pessimo, i Comuni, spaventati dall’ipotesi no deal, dovessero votare e ottenere dall’Ue una proroga di lungo termine, o addirittura cancellare la Brexit revocando l’articolo 50, non incolperanno certo i Brexiteers duri e puri, ma il primo ministro che ha portato in Parlamento un testo irricevibile e i deputati che avranno tradito il risultato referendario. Il paradosso, ben descritto da Daniel Hannan, è che quelli convinti a votare per l’accordo May di fronte al rischio no Brexit, per avere una Brexit purchessia, per quanto dannosa, passano per “moderati”, mentre quelli che continuano a bocciarlo perché pragmaticamente convinti che alcune forme di Brexit siano peggiori di altre, e alcune peggiori anche rispetto a restare nell’Ue, passano per “estremisti”.

L’approccio ai negoziati di mera riduzione del danno da parte di un primo ministro Remainer, che in fondo non crede ai potenziali benefici della Brexit, e l’eccessiva paura per il no deal della classe politica britannica, non solo di Downing Street, hanno letteralmente armato le cannoniere di Bruxelles. I negoziatori Ue infatti stanno riuscendo in ciò che era il loro obiettivo, a sprezzo del pericolo e dell’interesse di tutti i cittadini europei: mettere il Regno Unito di fronte alla scelta tra uno stato di vassallaggio, di gran lunga peggiore della membership (più che un accordo, una resa post-bellica, con tanto di ipoteca sull’integrità territoriale e risarcimenti) e la rinuncia – prima o poi – alla Brexit. Se però, per accidente, alla fine di questo interminabile giro di roulette, esce il no deal, un rischio evidentemente ritenuto più accettabile a Bruxelles che a Londra, agli attuali leader europei non potrà non essere messo in conto l’ennesimo fallimento.

Pensate, infatti: sarebbe bastato che il backstop prevedesse una clausola di revoca unilaterale, magari passato un certo periodo, e l’accordo sarebbe quasi certamente passato a Westminster. Chissà se comincia a sentirsi un po’ truffato il primo ministro irlandese Leo Varadkar, a cui è stato fatto credere che il backstop serviva a evitare un confine rigido e a salvaguardare gli Accordi del Venerdì Santo, e che invece, se dovesse provocare un no deal, avrà l’effetto contrario. L’ingenuo Varadkar ha creduto che Bruxelles, Parigi e Berlino avessero a cuore la questione irlandese, invece questa è stata semplicemente giocata per fare in modo di mantenere indefinitamente il Regno Unito nell’unione doganale.

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