No, non è la rivincita sulla Brexit: Ue non è sinonimo di Europa e Londra resta centrale

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Non appena Donnarumma ha parato l’ultimo calcio di rigore, regalandoci la vittoria dell’Europeo 2020, i soliti commentatori della domenica hanno iniziato a rovinarci la festa. Nel modo peggiore: politicizzando lo sport.

Non è una novità che le partite giocate dalla nazionale entrino a far parte del dibattito sociale e politico. Parafrasando Churchill, gli italiani vincono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono guerre come se fossero partite di calcio (Churchill ci dava perdenti anche nel calcio, ma l’11 luglio avrebbe avuto torto). In questo campionato, c’è stata una marcia in più nella politicizzazione. Si è voluto dipingere la sconfitta inglese come una “rivincita” dell’Ue sulla Brexit. E non solo i giornalisti e gli influencer si sono prestati a questo sporco gioco, ma anche i vertici della politica europea, a partire da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione, che tifava dichiaratamente per la nostra nazionale, non tanto per motivi genuini e comprensibili (la sconfitta appena subita dalla sua nazionale ad opera degli inglesi), quanto per scopi politici, perché l’Italia è nell’Ue e l’Inghilterra è fuori.

Eppure, gli opinionisti anti-Brexit non hanno notato un “dettaglio” che li costringerebbe a riscrivere tutta la loro narrazione retorica: la finale si giocava allo stadio di Wembley, Londra, capitale del Regno Unito. Una partita vinta o persa da una squadra di calcio nazionale non vuol dire nulla, dal punto di vista politico. Ma l’assegnazione della finale del campionato di calcio europeo alla capitale britannica, invece, vuol dire molto. Prima di tutto che il Regno Unito pesa ancora tanto nelle organizzazioni sportive europee, nella Uefa, in questo caso. Ricordiamo bene che nei primi anni post-voto sulla Brexit si dipingevano scenari di un’isola britannica tagliata fuori dal mondo ed esclusa da tutte le manifestazioni, inclusi i mondiali, gli europei e i giochi olimpici. Complici anche gli avvertimenti dei vertici della Uefa, nel 2017, che a quanto pare erano più teorici che pratici, ma venivano enfatizzati ad arte dalla nostra stampa.

Secondo: Londra si è aggiudicata i guadagni, l’attenzione del pubblico e l’onore politico di tutti i grandi eventi internazionali. Ha ospitato capi di Stato, vip del mondo economico e dello spettacolo, semplici tifosi e turisti da tutta l’Ue e non solo. In Italia avremmo salutato un’occasione così ghiotta con articolesse, a quotidiani unificati, sull’autorevolezza del nostro premier e l’avremmo intesa come un simbolo dell’Italia che rinasce (dopo, ovviamente, la “resilienza” dell’ultimo anno). Perché, se succede a Londra, non lo si nota?

La capitale britannica ha mostrato il suo volto vincente contro il Covid, dopo una campagna vaccinale di successo. Nello stadio, ad assistere alla “rivincita sulla Brexit”, c’erano oltre 60 mila inglesi e circa 6 mila italiani, urlanti, danzanti e senza mascherina. Uno spettacolo ben diverso rispetto alle lugubri scene di stadi vuoti o strettamente contingentati (come l’Olimpico di Roma) a cui la pandemia ci aveva abituato.

La platea di gufi della virologia si è subito messa in moto, dando a Boris Johnson dell’imprudente o del cinico e sventolando lo spauracchio della variante Delta. Noi non facciamo scommesse sul futuro, ma altri eventi di massa, nel passato prossimo, stigmatizzati dagli stessi gufi, non si sono trasformati in nuovi focolai. Johnson sa che le riaperture comportano sempre un rischio. Ma dopo la massiccia campagna di vaccinazioni, si tratta di un rischio calcolato. Perché delle due l’una: o il vaccino funziona, e allora viva gli stadi pieni, come vuole Johnson; o altrimenti non funziona, e allora non avrebbero senso misure per spingere a vaccinarsi come il green pass o proposte di rendere obbligatoria la vaccinazione, come quelle di Macron.

Infine, ma non da ultimo, l’esistenza stessa del campionato europeo di calcio dimostra che Ue ed Europa non sono affatto sinonimi. La Uefa è un’organizzazione con sede in Svizzera, nazione europea ma non uno Stato membro dell’Ue. Nella prima partita della nazionale, abbiamo battuto la Turchia, poi la Svizzera e infine il Galles. Nessuna di queste nazioni è parte dell’Ue. Il Galles non è neppure uno Stato indipendente, la sua esistenza, almeno come nazionale di calcio, è un simbolo di grande tolleranza da parte di Londra, del grande pluralismo interno al Regno Unito, inesistente negli altri Stati multi-nazionali membri dell’Ue. Nello stesso campionato hanno giocato altre squadre, quali la Russia, l’Ucraina e la Macedonia, per non parlare della Scozia (caso analogo a quello del Galles), che non fanno parte dell’Unione. Oltre che nelle metropoli dell’Ue si è giocato anche a San Pietroburgo e a Baku (capitale dell’Azerbaigian, città che molti europei non saprebbero indicare sulla carta geografica).

Perché, almeno nel calcio, i confini politici non contano. Ci sono altre frontiere, magari, fra chi è membro della Uefa e chi appartiene ad altre federazioni internazionali, ma il limes comune dell’Unione europea è un’astrazione che lo sport (così come il commercio e la cultura) non conosce.

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