Chi ha paura dei robot? Una riflessione sull’automatizzazione e il mercato del lavoro

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Il 53 per cento degli italiani è seriamente preoccupato o arrabbiato all’idea che la robotizzazione possa sostituire molti lavori, mentre il 54 per cento sarebbe d’accordo nel tassare le nuove tecnologie. Così afferma un’indagine della Lorien Consulting, effettuata nell’ambito del forum “QualeEnergia?”.

Proprio recentemente, il leader della Lega Nord Matteo Salvini ha dichiarato di essere favorevole ad introdurre una tassa sui robot, in modo da poter proteggere i lavoratori evitando una loro sostituzione. I sindacati, su tale argomento, sembrano essere già pronti a mettersi sul piede di guerra, a maggior ragione dopo le recenti dichiarazioni sui braccialetti brevettati da Amazon.

Insomma dopo l’Euro, lo spauracchio Brexit-Trump, il libero mercato ed i vaccini, ora il popolo Italiano ha un nuovo nemico: il progresso tecnologico, reo di essersi improvvisamente macchiato di un qualche peccato indelebile. La tecnologia, la quale di in anno in anno è sempre più accessibile a tutti, un tempo era considerata fondamentale per l’aumento del benessere dell’uomo, migliorando ogni piccolo aspetto della sua vita. Basti pensare cosa possiamo fare oggi con uno smartphone rispetto a 15 anni fa. Tuttavia, incomincia a profilarsi una narrativa dai sentori rancorosi, dove pian piano ritorna pericolosamente in auge la figura del “grasso capitalista” che in un qualche modo cospira contro i lavoratori.

In un clima politico complicato come quello attuale, non c’è niente di più sbagliato.

Un recente studio della McKinsey delinea come l’automatizzazione porterebbe sostanziosi vantaggi. Il calo dei tassi di natalità e la tendenza all’invecchiamento porterà alla riduzione della percentuale di popolazione in età lavorativa, risultando così in un gap della crescita: il fattore trainante dello sviluppo dell’economia, ovvero l’incremento dell’occupazione, verrà totalmente a mancare. Nel migliore dei casi, la crescita economica verrebbe quasi dimezzata. L’automazione potrebbe compensare questo pericoloso trend. Dallo studio risulta di come “l’iniezione di produttività” si aggirerebbe intorno allo 0,8 e 1,4 per cento del PIL globale all’anno. Entro il 2065, i robot potrebbero portare un incremento di forza-lavoro comparabile da 1,1 miliardi a 2,3 miliardi di lavoratori a tempo pieno aggiuntivi, garantendo prosperità continua ai paesi in via d’invecchiamento e impulso a quelli in rapida crescita.

Affrontare l’argomento esclusivamente con un approccio passivo, ovvero limitato alla semplice stesura di una qualche legge o nuova tassa, rischia di essere assolutamente deleterio. Allora quale può essere il metodo giusto? “Dobbiamo trovare un modo per ottenere delle opportunità dalla tecnologia. Ciò che non puoi fare è restare fermo – devi salire sul ‘bus’ – ma in un modo che aiuti il ​​maggior numero di persone possibile”, per citare la baronessa Morgan di Huyton, membro laburista della Camera dei Lord. In un mercato rapido in costante evoluzione, restare fermi significa morire o, per meglio dire, essere soppiantati dalla concorrenza.

I lavori che saranno letteralmente spazzati via sono quelli ripetitivi, indipendentemente dal colore bianco o blu del colletto: gli operai nelle catene di montaggio e gli impiegati semplici contabili andranno incontro alla stessa sorte. Il fattore in comune qui è la completa assenza dell’estro umano, capace invece di portare tantissime opportunità in quello che viene definito “capitalismo intellettuale”.

Aspettiamoci quindi di veder fiorire quelle occupazioni che richiedono la capacità di analizzare, immaginare, creare, gestire o anche solamente scrivere. Servizi alla persona, settore sanitario, comparto scientifico e tecnologico, posizioni manageriali, settore artistico, del design e della moda: insomma, un ampio ventaglio di possibilità che avranno modo di esprimere il loro potenziale, sempre che si riesca a cogliere.

Per afferrarlo, è necessario guardare alle nuove generazioni in procinto di intraprendere il percorso delle scuole superiori, specialmente gli istituti professionali. Una scuola capace di adattarsi alle esigenze del mercato, fornendo il know-how tecnico richiesto e al contempo dando agli studenti gli strumenti critici necessari, può essere veramente un punto di svolta per quanto riguarda il futuro dell’occupazione e dell’economia italiana.

In poche parole: il progresso tecnologico non va frenato, ma accolto a braccia aperte e sfruttato nel migliore dei modi possibili. Anzi, esso può essere l’input auspicato per dare il via a quelle tanto desiderate riforme strutturali del Paese, necessarie per renderci più competitivi nel mercato europeo.

Forse guardando indietro al nostro passato, possiamo prendere spunto per affrontare al meglio il futuro. Nel XV secolo, con l’avvento della stampa, si gridò all’eresia: oltre alla minaccia posta agli amanuensi, si “rischiava” di istruire il popolo, privilegio concesso solo all’aristocrazia. All’inizio del XX secolo, gli impiegati nel mondo dell’agricoltura rappresentavano circa il 60 per cento della popolazione italiana totale. Con l’avvento della rivoluzione verde, della meccanizzazione e delle nuove tecniche di coltivazione, l’occupazione del settore primario scese ai “soli” 3,8 per cento attuali con un largo aumento del benessere, non l’opposto. Sempre nel 1900, l’imprenditore Henry Ford introdusse la catena di montaggio, costruendo milioni di Model T: gli scettici dell’epoca preannunciavano già una crisi dovuta alla scomparsa dei lavori legati ai cavalli, che venivano usati come mezzo di trasporto. La leggenda vuole che a lui si attribuisca l’affermazione “Se avessi chiesto alle persone cosa volessero, avrebbero detto cavalli più veloci.”

Ecco, vediamo di NON essere quelli che desiderano i cavalli.

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