Ucraina: il falso alibi della “provocazione” Nato per nascondere la voglia di impero di Putin

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A quale provocazione starebbe rispondendo Putin? In Ucraina non ci sono missili Usa e l’adesione di Kiev alla Nato non è più in agenda da anni

Dovrebbero metterlo, a questo punto, come avvertenza: una crisi con la Russia può provocare gravi effetti collaterali, fra cui allucinazioni collettive. In una di queste allucinazioni, che troviamo descritte nero su bianco negli articoli di esimi giornalisti, da ultimo Toni Capuozzo (ma è in ottima e vastissima compagnia), la crisi in Ucraina viene scambiata come una crisi dei missili di Cuba alla rovescia. Secondo costoro, la Russia starebbe schierando, da novembre, circa 100 mila uomini ai confini dell’Ucraina, non per minacciare di invaderla, ma solo per reagire ad una provocazione inaccettabile. E dicono che sia come se la Nato avesse schierato i suoi missili in territorio ucraino, puntati nientemeno che al cuore della Russia, esattamente come Chrushev fece a Cuba nell’ottobre 1962, dove schierò segretamente missili balistici nucleari a raggio intermedio puntati sulle città degli Usa. Questa metafora dovrebbe servire a far “comprendere” al grande pubblico perché Putin non sia affatto un aggressore, ma sia semmai costretto a reagire, minacciando anche l’uso della forza militare, se necessario.

La metafora non calza con la realtà, a meno che non si abbiano, appunto, le traveggole. In primo luogo: dove sarebbero mai i missili della Nato, o anche solo americani, schierati in Ucraina? Quali sarebbero questi missili? Dove sono le rampe? Perché John F. Kennedy, prima di ordinare il blocco navale di Cuba, aspettò per lo meno di vedere le foto scattate da un aereo di ricognizione in cui si vedeva la presenza dei missili sovietici in territorio cubano. Ad un atto di guerra non dichiarata, Kennedy rispose con il massimo della prudenza: bloccando l’isola e negoziando. Ma in Ucraina non ci sono missili americani, né missili di alcuna altra nazione membro della Nato. A quale provocazione, di grazia, starebbe rispondendo Putin?

Anche volendo rimanere entro la metafora di Cuba, possiamo pensare che una crisi dei missili sia in preparazione. Quella del 1962 fu il culmine di un braccio di ferro durato tre anni, fra il nuovo regime comunista cubano nato dalla rivoluzione del 1959, e le due amministrazioni che si succedettero in quegli anni, quella di Eisenhower e poi quella di Kennedy. La tensione culminò con il fallito sbarco della Baia dei Porci, quando un piccolo esercito di volontari anticomunisti cubani provò a rovesciare il regime, con il tacito appoggio americano, e non vi riuscì. Il parallelo con l’Ucraina viene comodo, a chi ci vuol credere, considerando che la crisi fra Ucraina e Russia iniziò nel 2014 con la deposizione dell’ultimo presidente filo-russo di Kiev, Viktor Yanukovic, a seguito della rivoluzione del Maidan. Allora la Russia reagì portandosi via un bel pezzo di Ucraina, la Crimea. E poi alimentando una guerriglia separatista nel Donbass che è tuttora in corso.

Ma il governo ucraino non è Castro e la Crimea e il Donbass non sono la Baia dei Porci. Il regime castrista era comunista, dichiaratamente ostile agli Usa e provvide subito a requisire le proprietà statunitensi sull’isola. I governi e i presidenti che si sono succeduti in Ucraina, dopo il Maidan, non sono dichiaratamente ostili alla Russia. Non l’ultimo presidente, per lo meno: Volodymyr Zelensky è stato eletto anche nelle regioni ucraine orientali, prevalentemente russofone, sulla base di un programma che era anti-corruzione, ma anche pro-dialogo. Con gran delusione per molti ucraini, danneggiati dalla guerra del 2014, aveva infatti avviato un dialogo sul Donbass accettando tante dolorose concessioni, territoriali e non. Non è un Castro che si pone da subito nel campo sovietico, antagonista al vicino statunitense: al contrario, Zelensky ha detto da subito di non voler aderire alla Nato. E il parlamento, dominato dal suo nuovo partito, ha votato di conseguenza. E quindi, a quale provocazione, di grazia, starebbe rispondendo Putin?

Esaurita la metafora di Cuba, la schiera di commentatori corsa a giustificare la mobilitazione russa rinvanga nel passato recente e parla di “patti non rispettati” da parte degli Stati Uniti. Quali patti? Secondo i russi e chi ne segue la narrazione, sarebbero accordi presi nel 1990 fra Gorbachev e Bush (padre) in cui gli Usa avrebbero promesso di non ammettere nella Nato alcun Paese membro dell’allora Patto di Varsavia. Anche qui, però, a meno che non si soffra di allucinazioni, non si trova alcun patto simile. Nel 1990 il Patto di Varsavia c’era ancora, così come c’era ancora l’Urss. Un po’ difficile che Gorbachev avesse venduto un accordo che già implicava lo scioglimento dell’uno e dell’altra, considerando soprattutto che lui ne era a capo. Accordi furono presi, nel settembre del 1990, fra il segretario di Stato James Baker e Michail Gorbachev, in vista della riunificazione della Germania, in cui la Nato si impegnava, almeno temporaneamente, a non schierare truppe straniere nella ormai defunta DDR. Ma nulla si disse su quelli che, allora, erano membri a pieno titolo dell’alleanza guidata dal Cremlino e che ancora ospitavano truppe sovietiche sul loro suolo.

Lo scenario cambiò drasticamente dopo il 25 dicembre 1991, quando si sciolse l’Urss. Uno dei primi atti del primo presidente Eltsin fu quello di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche ex sovietiche. Riconoscendone l’indipendenza, liberava anche la loro politica estera: avevano, da allora, il diritto di aderire anche ad altre alleanze. Il Patto di Varsavia era già defunto dal luglio del 1991 e le repubbliche nate sulle ceneri dei regimi comunisti europei erano anch’essi ormai liberi di scegliere nuovi partner e alleati.

Dopo il 1991 non vi è traccia di altri accordi, scritti o verbali che fossero, che impedivano alle repubbliche ex sovietiche o ai Paesi dell’ex Patto di Varsavia di aderire alla Nato, all’Ue o a qualsiasi altra organizzazione internazionale. Impedire il loro ingresso nella coalizione occidentale era semmai una priorità dei partiti nazionalisti e post-comunisti russi, ma non della politica ufficiale russa. Né Eltsin nel 1997, sia pure con molte remore e resistenze, ha posto il veto all’inizio del percorso degli ex “satelliti” sovietici verso occidente, né Putin ha sollevato particolari obiezioni quando questi sono entrati nella Nato e nell’Ue nel 2004.

E quindi, a quale provocazione, di grazia, starebbe rispondendo Putin? Sarebbe dunque ora di considerare questi argomenti, come “i missili americani in Ucraina”, o “l’annessione dell’Ucraina alla Nato” o “i patti violati dalla Nato che si è espansa fino ai confini russi” per quello che sono: allucinazioni collettive. Che in gergo politico hanno un nome ben preciso: propaganda. A chi serve fare propaganda russa in Italia? Questa, semmai, è la domanda che giornalisti e politici dovrebbero porsi, ora che è iniziata la più grave crisi internazionale che coinvolge l’Europa. Nei partiti di destra e centrodestra, soprattutto, sarebbe anche l’ora di farsi un esame di coscienza, prima di farsi percepire nel mondo come unica destra filo-russa del mondo occidentale.

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