Un libro di Luttwak come antidoto a semplificazioni e sparate degli “espertoni” nostrani

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Mai come in questi giorni di posizioni incerte o diametralmente opposte sulla questione Usa-Iran, sarebbe utile la lettura di un vero e proprio trattato di strategia politica e militare scritto da uno che di strategia e di Stati Uniti ne capisce come pochi altri: Edward Nicolae Luttwak. In particolare, tra la copiosa bibliografia dell’esule rumeno, naturalizzato americano, eminente studioso di strategia militare internazionale e per anni influentissimo consulente militare del governo statunitense, sarebbe consigliabile leggere attentamente quella che, probabilmente, è la sua opera di maggior rilievo, ossia: “Strategia. La logica della guerra e della pace”.

Già nella premessa del libro, scritto in prima edizione nel 1989, possiamo trovare interessanti ed acute osservazioni, che ben s’attagliano alla situazione attuale. Ne cito alcune: “Lo scopo principale della strategia è vincere, la sua logica stabilisce chi sarà il vincitore, i suoi metodi cercano di definire il modo con cui conseguire la vittoria, i suoi limiti determinano le dimensioni della vittoria”. Luttwak ha le idee chiare, chiarissime. Ogni azione strategicamente rilevante ha un unico scopo: la vittoria. Non s’iniziano azioni militari per fare salotto o per guadagnare consensi senza prevederne risultati concreti. Se non si sconfigge l’avversario, le conseguenze per l’autore di tali iniziative saranno fatali, e ciò lo sa meglio Trump di chiunque altro.

Ed ancora: “È inutile cercare esempi di vittorie dei terroristi. La ferrea logica della strategia ne determina la loro impossibilità: la violenza di pochi non può cambiare l’equilibrio delle potenze”. Anche questo punto è chiarissimo ed interessante, in quanto si traccia una linea netta tra “potenze” e “terrorismo”, riaffermando che i terroristi mai saranno potenza loro stessi e, comunque, fatalmente, prima o poi, soccomberanno.

“Quando i deboli attaccano i forti tendono naturalmente ad evitare obiettivi difficili, come i reparti militari e le loro basi. Essi attaccano indiscriminatamente i civili e le strutture civili”. Altra considerazione, questa, d’assoluto rilievo e facilmente riscontrabile, tanto nel panorama mediorientale che in altri scenari globali. I casi di attacchi da parte di gruppi terroristici a basi militari (come, purtroppo, quello che colpì la nostra base di Nassiriya nel 2006) sono di gran lunga meno numerosi, rispetto ad un terrorismo diffuso e parcellizzato, che mira a colpire le folle, ancor prima degli obiettivi civili, anche e soprattutto per mezzo di “cani sciolti” o di piccoli gruppi assai poco militarizzati. La constatazione di Luttwak è importante e di certo non banale, perché pone l’accento sulla debolezza dei terroristi, che, al contrario, vengono da noi troppe volte sopravvalutati in termine d’efficienza bellica e strategica.

Un’altra considerazione, tratta dalla stessa opera, è molto importante come spunto di riflessione: “Ogni esperienza di conflitto è qualcosa di unico, il prodotto di un’irripetibile convergenza di aspirazioni politiche, emozioni, limitazioni tecniche, mosse tattiche, schemi operativi e situazioni geografiche”. In questo caso, il competente autore squarcia letteralmente il velo che ammanta l’ambiente degli “espertoni”, di molti giornalisti e di quasi tutti i politici che azzardano ipotesi sulle situazioni di crisi internazionale in ciò che, improvvidamente, gli stessi pessimi conoscitori di faccende militari definiscono “alba di guerra”, “vigilia della terza guerra mondiale”, addirittura, preconizzandone l’esito finale. Non una sola vera guerra, sottolinea Luttwak, fu il risultato di una determinante scelta di un potente, magari avventata, ma fu, piuttosto, causata da una complessa congerie di fatti, situazioni contingenti regionali, mire politico-economiche e schemi consolidatisi nei tempi e non certamente liquidabili tout court come “guerra per il petrolio” ed altre approssimazioni. Non coglie affatto nel segno quel commentatore odierno che vorrebbe porre a fondamento ed unica causa dell’uccisione del generale Suleimani per decisione diretta di Donald Trump la campagna elettorale in vista delle prossime presidenziali e il desiderio del presidente Usa di aumentare i consensi popolari con un forte richiamo al celeberrimo reattivismo americano. Non solo questo potrà, nella peggiore delle ipotesi, portare ad un vero e proprio conflitto dalle conseguenze non facilmente immaginabili. Proprio perché ogni conflitto fa storia a sé, la lettura di questo libro sarebbe molto consigliabile ai commentatori ed opinionisti, se non anche agli stessi protagonisti di questa grave crisi che contrappone l’irriducibile Iran alla strapotente America.

La monumentale opera di Luttwak, che spazia con rigore ed amplissima documentazione specifica in tutto il periodo storico dall’Antica Roma a Desert Storm ed altri conflitti recenti, è probabilmente la più autorevole e ragionata fonte di approfondimento teorico e tecnico del punto di vista militare americano, che noi purtroppo conosciamo ben poco, pur stigmatizzandolo a priori per una sorta di preconcetta ed irriconoscente antipatia verso gli Usa che riaffiora inesorabilmente.

Aspettiamoci pure, nei prossimi giorni, di vedere sui quotidiani ed in tv i soliti schemini con le forze militari in campo e tanti carri armati e bombardieri di diversi colori dispiegati, come nel Risiko, sullo scenario mediorientale. Saremo, dunque, tutti strateghi e profondi conoscitori della potenza di fuoco di questa o quell’altra arma. Anche in questo settore, tuttavia, sarebbe opportuno fare riferimento a questa considerazione del profondo conoscitore delle questioni militari americane: “Nella moderna evoluzione della tecnologia militare, è proprio l’elevata efficienza derivata da una specializzazione mirata ad avere molta importanza. A ogni sostituzione, nuove armi specializzate hanno offerto la prospettiva di sconfiggere armi più elaborate e costose, versatili in molti campi, ma pur sempre vulnerabili di fronte all’unico -risultato- delle armi speciali”.

Insomma, c’è molto da imparare da chi di guerre ne ha combattute, non sempre vincendole, più di noi, dopo la fine del secondo conflitto mondiale. Non che la guerra possa essere mai bella o auspicabile, e la guerra giusta non esiste per definizione. Se sia stato saggio reagire in quel modo, da parte di Washington, all’assalto all’ambasciata americana di pochi giorni fa, un attacco che non è certo un caso isolato, ma evoluzione strategica e parte di un più pericoloso disegno egemonico iraniano contro l’intero Occidente, lo vedremo in tempi brevi. Di certo non è delegando la risposta ad una inesistente Ue, forte in economia ma debolissima e frammentata in tema militare, che l’Italia, per l’ennesima volta, dimostrerà di aver scelto responsabilmente e con coerenza da che pare stare. Perché, alla vigilia dei conflitti ed in tutte le circostanze d’interesse mondiale, l’importante è decidere da che parte stare, possibilmente fuori dalle sagrestie partitiche, senza coglierne l’occasione per vendette e ripicche personali e, soprattutto, non facendo dietrofront poco dopo, cosa nella quale siamo abbastanza esperti e per cui non siamo stimatissimi in tema di alleanze politiche militari.

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