Viaggio dove il Covid-19 ufficialmente non esiste: Bielorussia, Turkmenistan, Corea del Nord

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C’è un video dal sapore sovietico che arriva da Minsk. Intorno a un tavolo siede il presidente Lukashenko, in carica da venticinque anni, mentre spiega a un ristretto gruppo di collaboratori (piuttosto interdetti) che in Bielorussia non esiste nessun rischio coronavirus e che il Paese non registrerà vittime a causa dell’infezione. Lui è così sicuro di quel che dice che non è la prima volta che opina pubblicamente in questo senso. In una recente intervista a bordo pista (Lukashenko è un fanatico dell’hockey su ghiaccio), il presidente invitava la giornalista a guardarsi attorno e a dirgli se vedeva il virus da qualche parte: “Vero che non si nota nulla?”, concludeva soddisfatto. Nelle ultime settimane sono state molte le sue esternazioni sul tema, fino a indicare come rimedi infallibili contro la malattia la vodka, la vita di campagna alla guida di un trattore e perfino la sauna. La riunione di cui scrivevo al principio, però, è avvenuta lo stesso giorno in cui il ministro della sanità bielorusso rilasciava un dispaccio ufficiale in cui fissava in 2.900 i casi di Covid-19 e in 29 i decessi, con 69.000 test effettuati. Insomma, da un lato la sicurezza ostentata del padre-padrone della nazione, dall’altro la realtà di un Paese che, dietro le quinte, sta cominciando a fare i conti con la pandemia.

Lukashenko è abituato a giocare col fuoco. In politica estera è stato uno dei pochi a sfidare apertamente le intenzioni di Putin di mangiarsi anche la Bielorussia, con la proposta di un’unione forzosa tra i due stati che per il momento rimane nel congelatore. In piena disputa per gas e petrolio con i russi, recentemente il presidente ha ricevuto a Minsk Mike Pompeo, in un chiaro segnale di non sudditanza diretto a Mosca. Ma stavolta rischia di bruciarsi. Non si tratta di sottovalutare il pericolo, cosa che hanno fatto all’inizio un po’ tutti i suoi colleghi, democratici e no. Si tratta di rifiutare la stessa esistenza del virus in territorio bielorusso, confidando in una sorta di immunità naturale di una popolazione di quasi dieci milioni di abitanti esposta a un elevatissimo rischio sanitario. In Bielorussia non si è fermato nulla, per il momento, nemmeno il campionato di calcio: domenica scorsa migliaia di persone affollavano lo stadio di Brest per la partita tra i locali e l’Isloch Minsk. Stesso regime da business as usual per cinema, scuole, aziende, negozi e bar. A Pasqua tutte le chiese sono rimaste aperte e probabilmente sarà l’unico Paese dove si svolgeranno regolarmente le celebrazioni del 9 maggio per la vittoria nella Seconda Guerra Mondiale. A parte gli sguardi spenti della compagine ministeriale in riunione, non risulta nessun tipo di obiezione ufficiale alla linea presidenziale. Solo un virologo, Andrus Voynich, ha osato definire l’atteggiamento del presidente-dittatore come “criminale“, facendo sapere peraltro che molti medici sono d’accordo con lui ma non osano parlare.

Il caso Bielorussia sarà interessante anche dal punto di vista medico e del comportamento sociale. In assenza di misure di contenimento e di quarantena resta da vedere che cosa deciderà la gente: seguire le indicazioni del leader e far finta di niente o attuare comunque in maniera spontanea quel distanziamento che è diventato la norma nella maggioranza dei Paesi europei, rispetto ai quali il precedente di Minsk potrebbe fornire interessanti indicazioni comparative sull’efficacia reale dei provvedimenti restrittivi. Ma è chiaro che il pericolo insito in questa forma di negazionismo sanitario è enorme. Resta da vedere se, di fronte all’inevitabile diffondersi del contagio, Lukashenko farà marcia indietro o continuerà sulla strada intrapresa. Un significativo banco di prova per un regime che, apparentemente, non presenta fessure. Mancano solo quattro mesi alle prossime elezioni presidenziali che, in teoria, non dovrebbero supporre nessun grattacapo. Un’eventuale emergenza potrebbe dar luogo a contestazioni e proteste organizzate, come è già successo in passato: la popolazione ha accesso alle fonti di informazione internazionali e, soprattutto i giovani, hanno dimostrato negli ultimi anni una coscienza democratica impensabile ad altre latitudini. Per il momento il governo ha cominciato a negoziare un prestito di 900 milioni di dollari con il Fondo Monetario Internazionale. Insomma, il coronavirus non colpirà i bielorussi però portiamoci avanti con il lavoro.

Situazione molto simile in Turkmenistan, la più chiusa e repressiva delle repubbliche dell’Asia Centrale, presieduta da un dentista dal nome impronunciabile, Gurbanguly Berdymukhamedov, che ha portato il culto della personalità, introdotto dal suo predecessore Saparmurat Niyazov, a livelli di caricatura. Nonostante confini con l’Iran, uno degli stati più colpiti, ufficialmente non si registrano casi di Covid-19. Nei mezzi di comunicazione, tutti in mano allo stato, la parola coronavirus viene pronunciata con il contagocce e la popolazione è tenuta completamente all’oscuro della realtà della malattia nel Paese. Radio Free Europe ha denunciato arresti di persone ree di averne parlato in pubblico. Il 7 aprile il presidente ha celebrato la Giornata Mondiale della Salute con una multitudinaria parata ciclistica, rigorosamente senza distanze di sicurezza né mascherine, nelle strade della capitale Ashgabat. Una manifestazione surreale, mentre il resto del mondo è chiuso in casa. Negli ospedali in febbraio erano affissi manifesti di avvertenza con i consigli per evitare il contagio ma nelle ultime settimane, riporta la BBC, sono stati rimossi. Uffici e luoghi pubblici intanto vengono disinfettati con un’erba medica che, secondo Berdymukhamedov, è in grado di avere la meglio su qualsiasi virus. Un po’ come la vodka a Minsk. Nelle strade di Ashgabat, mai specialmente popolate, tutto prosegue senza restrizioni. Ma dietro la patina della propaganda ufficiale, pare che le autorità stiano discutendo con le agenzie Onu un piano di misure da adottare, mentre nella parte nordorientale del Paese è stata costituita una zona di quarantena dove probabilmente isolare i contagiati, per ragioni sanitarie e politiche. Anche se indossare mascherine e guanti per strada è proibito, dal 9 aprile sono stati istituiti gruppi medici speciali incaricati di combattere il coronavirus e punti di controllo della temperatura nelle vie di accesso alle principali città. Dal mese scorso, inoltre, i voli internazionali sono stati cancellati. A differenza della Bielorussia, i pochi utenti del web possono usare solo una versione limitata di internet, adattata alle esigenze interne, e non c’è traccia di opposizione organizzata dentro il Paese. Le uniche possibilità per la popolazione di venire a conoscenza del contagio e delle misure di prevenzione sono legate alle campagne informative che gli operatori sanitari, spesso al margine delle direttive governative, stanno portando avanti in semi-clandestinità.

Parzialmente diverso il caso della Corea del Nord. Se anche la dittatura di Kim Jong-Un nega la presenza di casi di Covid-19 nel Paese, dato su cui ovviamente è lecito dubitare vista la censura informativa totale, Pyongyang ha preso provvedimenti per prevenire il contagio fin dall’inizio dell’emergenza. Il 21 gennaio le autorità decretavano la chiusura della frontiera con la Cina e il blocco di tutti i voli in entrata e in uscita. Chi proveniva dall’estero (un numero comunque limitato di persone) veniva sottoposto a un periodo di quarantena e di osservazione medica obbligatorie. Stesso trattamento per gli stranieri presenti in territorio nordcoreano, mentre i diplomatici erano evacuati in fretta e furia all’inizio di marzo. Scuole chiuse, parate militari ed altri eventi di massa sospesi. Non così la riunione del Politburo del Partito dei Lavoratori che ha avuto luogo l’11 aprile e nella quale si sono adottate “misure più stringenti per prevenire la diffusione del coronavirus“. Il che, in un sistema totalitario dalle caratteristiche di quello nordcoreano, non dovrebbe risultare particolarmente complicato. Insomma, nessuna rimozione del problema ma blocco totale sulle cifre dei probabili malati. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, coerente con la sua linea, ha accettato la versione ufficiale del regime secondo cui il Paese è libero dal virus mentre la Corea del Sud sostiene che la pandemia lo ha colpito pesantemente. Non ci sono prove concrete di questa affermazione, in un contesto in cui le conseguenze di un’epidemia di questo tipo sarebbero catastrofiche nonostante l’elevato numero di medici, vista la miseria diffusa e lo stato delle strutture sanitarie al di fuori della capitale. Resta il fatto che, stando a fonti ufficiali del regime, il 18 marzo Kim Jong-Un ha ordinato la costruzione di nuovi ospedali in tutto il Paese, senza peraltro mettere in relazione questa decisione con il coronavirus. Tutti i membri del Comitato centrale del Partito hanno ricevuto mascherine provenienti dalla Cina, in un chiaro tentativo di preservare almeno l’élite politica e militare del Paese. L’esercito è sempre in allerta ma è proprio tra le file dell’armata che sembra si siano verificati gli unici casi accertati di morti per l’infezione: tra gennaio e febbraio, riporta Asia Times, almeno 180 soldati sarebbero stati vittime della polmonite e 3.700 rimarrebbero tuttora in isolamento. Al di là della propaganda, l’isolamento cui il Paese è sottoposto anche in tempi normali e i metodi coercitivi della dittatura hanno probabilmente permesso di controllare l’epidemia con una certa efficacia. Speriamo non se ne accorgano da noi.

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