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Bare di Bergamo, Tommaso Montesano non ha offeso i morti. Vi spiego perché

Il tweet del giornalista di Libero è stato volutamente distorto e strumentalizzato dalla narrazione unica del virus

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In Italia tutto si può perdonare, eccetto avere un pensiero libero. Soprattutto se contrario alla retorica mainstream e alla propaganda di governo. So che non è elegante commentare le parole di un collega – specie quando sono compresse in 140 caratteri e specie se quelle parole appartengono a una persona che ha lavorato nel tuo stesso giornale (per circa 20 anni) e che in aggiunta è anche tuo compagno di vita.

Mi ero ripromessa di schivare ogni polemica e di non intervenire nel dibattito sterile, dove forse pesa anche un cognome ingombrante. Ma anche io ho ricevuto telefonate da colleghi e mi sento tirata in causa dopo aver capito che, in realtà, solo a pochissimi interessa davvero capire cosa il giornalista Tommaso Montesano voleva dire in quei 140 caratteri del suo tweet. Per altro subito rimossi appena accortosi della strumentalizzazione delle sue parole. La sua spiegazione, piaccia o meno, è stata pubblicata sul suo profilo Facebook, alla portata di tutti. Chi vuole la rintraccerà facilmente. Ma sono in pochi ad averla cercata e ancora meno i colleghi interessati a capirla davvero.

Ho assistito, invece, a una ridda di dichiarazioni – inclusi insulti e minacce di morte, che mettono a rischio anche la sua famiglia – che lo hanno voluto inchiodare a un’interpretazione a senso unico del suo pensiero. Ovvero; se il comunicato del Lago della Duchessa, il famigerato comunicato numero  7 “rivendicato” dalle Br, è storicamente un falso, allora Montesano intende dire che anche le bare delle vittime sono un falso. Il comunicato del 18 aprile 1978 si rivelò un torbido depistaggio, che a molti fece presagire il destino che sarebbe toccato al presidente della Dc. Ma citare l’esistenza di quel comunicato (falso) non implica affatto asserire che il sequestro e l’assassinio dello statista della Dc non siano mai avvenuti. Questo lo dice la logica, oltre che la sintassi. Le immagini della ricerca, impotente, del corpo di Moro, nella profondità del lago ghiacciato della Duchessa, nel 1978 gettarono il Paese in uno stato di profondo terrore e sconforto e contribuirono all’emanazione di quelle leggi speciali, di cui ancora oggi abbiamo il ricordo.

In modo analogo all’enorme impatto emozionale che, su tutti noi, hanno avuto le immagini del tragico incedere dei carri di Bergamo. Trovare dove il collega Montesano abbia negato, nei suoi 140 caratteri, l’esistenza di queste vittime e di queste bare è un’impresa impossibile perché è un falso. Quello che è vero, semmai, è l’uso volutamente distorto di un’interpretazione che non è quella autentica fornita dal giornalista. Bensì quella appiccicata di chi ha letto e non ha voluto perdere nemmeno un minuto affinché Montesano chiarisse. Oggi basta fare un titolo choc e apporre il bollo “negazionista” e il gioco è fatto: il linciaggio mediatico è sdoganato per tutti. Poiché i titoli si copiano a vicenda, in un infernale effetto eco che impone a tutti un’unica, placida, versione a senso unico dei fatti. Quella ufficiale, da cui è vietato discostarsi.

Mi viene il dubbio che ormai alcune parole non si possano più nemmeno usare per definizione: delle bare di Bergamo e di Brescia parlò in Senato, in un intervento istituzionale, il senatore Matteo Renzi. E anche lui fu messo alla gogna e si dovette scusare pubblicamente. Per avere espresso, anche lui in modo poco felice, un concetto subito etichettato come un plateale oltraggio alle vittime e ai loro parenti. La frase incriminata era: “Anche i morti di Bergamo chiedono di riaprire”. Non sono l’esegeta di nessuno, e tantomeno del senatore Renzi per cui non ho alcuna simpatia. Ma quella frase significava, se letta nel suo contesto, non che quei morti non fossero mai esistiti, o che fossero da ignorare, e tutti potessimo così tornare alla movida. Piuttosto, che non si dovessero comprimere ulteriormente (come poi avvenuto) altri diritti fondamentali degli italiani, proprio attraverso l’uso massiccio, diffuso per mesi dai media, delle potentissime immagini di quelle bare. Simbolo iconico di un lutto nazionale devastante.

Quelle immagini, come la ricerca spasmodica e vana del cadavere di Moro nelle acque nere del lago, hanno provocato un effetto altrettanto devastante nella psiche della popolazione. La morte, sia quando avviene per il Covid che per una strage o per un cataclisma, quando è collettiva dovrebbe essere trattata dai medi con ancora maggiore rigore e pudore. Altrimenti c’è il rischio, quello sì molto pericoloso, di usare l’iconicità di quelle immagini per annichilire un Paese. O per giustificare misure di compressione dei più elementari diritti umani, poi rivelatesi sproporzionate alla reale efficacia dei provvedimenti presi. Una per tutte, divenuta un’altra immagine iconica, è quella del runner che corre da solo, sulla spiaggia deserta, inseguito dalle forze dell’ordine e dai droni. Oggi abbiamo scoperto, dalle più accreditate ricerche internazionali, che i lockdown non hanno portato benefici tangibili nella riduzione dell’epidemia e che hanno invece causato ulteriori danni. Hanno spinto gli individui più fragili, inclusi moltissimi bambini (a cui nessuno dei nostri politici ha mai chiesto scusa), all’apatia, alla depressione, alle dipendenze, alle violenze domestiche, alla povertà, all’alcolismo, al suicidio. Ma di questo è vietato parlare.

Di queste persone suicidate, di quelle lasciate fallire da sole, a stento conosciamo l’esistenza e per loro non ci indigniamo. Ci limitiamo a ignorare che esistano, nonostante siano state diffuse allarmanti statistiche al riguardo anche dagli psicologi e psichiatri italiani. Dietro a ogni numero, come dietro a ogni bara, c’è sempre una persona, di cui non sappiamo nulla ma alla cui morte non ci dovremmo rassegnare, conferendo l’unicità della sua vita alla massa indistinta di tutti gli altri lutti. Ieri su questo sito alcuni lettori hanno ricordato – sotto all’articolo dedicato all’infelice tweet di Montesano – che l’accumulo delle bare di Bergamo fu dovuto, purtroppo, anche al divieto di effettuare le sepolture. Oltre che alla scarsità dei carri funebri per trasportale tutte. Da qui il ricorso ai carri armati. Segni lugubri e tangibili (anche) dell’impotenza di uno Stato.

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