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Caro Scanzi, ti spiego cos’è davvero un caregiver

andrea scanzi(1)

Duemilionisettecentomila. Sono quelli che al 13 aprile hanno sfruttato le maglie dell’italica confusione, si sono sparati il vaccino prima dei vecchi, dei sanitari, delle “fasce prioritarie”: viva l’Italia, ma io, se fossi Pasquale Ametrano, andrei al presidio petaloso vaccinale, mi tirerei su la maglietta zozza e, nello slang che solo io capisco, racconterei quanto segue all’esercito dei presunti caregiver una vita in vacanza, in tivù, alla beauty farm, in missione per conto di Dio. Vi consegno la mia storia.

“Nato da umili origini”, come il professor Sassaroli, mi ritrovo a quasi 57 anni con una madre che ne ha compiuti 88, reduce da un ictus tre anni fa, pressoché ingestibile ma che devo gestire come posso, con l’aiuto di Laura che salva la vita a tutti e due. Il fisico è integro, la mente è volata via, invalida al 100% testata e certificata, non trova e non dà pace. Le vivo a 400 metri ma sono sempre là, solo che non basta; non basta mai. Lei telefona, e telefona, e telefona, ad ogni ora del giorno e della notte, per i motivi più improbabili al punto che, il più delle volte, non li sa spiegare neanche lei. “Corri, sto morendo”: di fame, di noia, di ferita, di autocombustione. Allora io corro e la trovo beata davanti alla televisione: “Che sei venuto a fare?”. Mi frega sempre, io m’incazzo e non dovrei, ma passateci voi.

Bisogna provare. Quando, all’una di notte, piange il telefono e “corri, sto soffocando” e tu corri nel gelo di un inverno che non finisce mai, alla faccia di Greta, e poi: “Che sei venuto a fare?”. Ogni giorno scassa qualcosa, perde qualcosa, o si fa qualcosa, o vede qualcosa che non c’è, ogni giorno la burocrazia si accanisce, scadenze, scemenze, incombenze, ogni giorno dieci faccende per lei, posson bastare. Spesso lavorare diventa problematico, e mi sono abituato a scrivere nei ritagli dell’emergenza.

Dice: ma mettila in ospizio. Ancora una volta, bisogna passarci. Io questo coraggio della viltà non ce l’ho, mia madre in ospizio non durerebbe due giorni, è fatta così, si lascerebbe morire (dopo aver fatto impazzire il personale al completo). Mi sono ammalato. Vado avanti, so che lei mi sopravviverà perché presto o tardi, ma più presto che tardi, un colpo mi prende anche a me. Poco ma sicuro. Io come tanti, tanti che conosco e siamo tutti disperati, incastrati, senza via d’uscita, tutti malati. Io se fossi Pasquale Ametrano, “’o sapete che c’è?”, manderei tutti affanculo, i caregiver per allegria, per allergia, quelli che segnalano i vicini, quelli che “ancora un piccolo sforzo”, perché vi posso garantire che nelle mie condizioni il lockdown è come un macigno che piomba su una trave già a pieno carico.

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