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Censura social: occhio allo strapotere dei padroni del web

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La reazione infantile e imbarazzante di Donald Trump di fronte al risultato elettorale rende da oggi più difficile, inutile negarcelo, portare avanti alcune battaglie che stanno a cuore al mondo liberale e conservatore (dalla lotta al catastrofismo ambientalista à la Greta a quella al “pensiero unico” del politically correct).

L’unica “speranza” è che i democratici, che quanto a faziosità e manicheismo certo non hanno nulla da imparare da certa Alt-Right, inebriati dal “successo” insperato, vogliano strafare e innestare la sana reazione non solo degli avversari ma anche di molti fra i cosiddetti “moderati”. L’unanime plauso con cui è stata accolta la decisione di Twitter e Facebook di cancellare, in maniera più o meno definitiva, un profilo come quello di Donald Trump in maniera “preventiva”, si inserisce in quest’ordine di discorso, ma anche tanti altri ne chiama. Da una parte, sa di “censura”, e, dall’altra, rende falsa e ipocrita la volontà spesso esternata dal mondo progressista di prendersi in carico il problema relativo allo strapotere acquisito dalle multinazionali del web.

Come al solito, la sinistra rischia di mostrare il suo lato peggiore, doppiopesista: certi strumenti sono un pericolo per la democrazia e la civile convivenza se favoriscono la destra; al contrario, sono una palestra di libertà e partecipazione se, come fece Barack Obama nella sua prima campagna elettorale, vengono usati in modo spregiudicato per targettizzare e violare la privacy degli utenti a favore delle forze progressiste. Lo stesso concetto di fake news, usato in questi casi per giustificare le “censure” imposte a Trump anche nei quattro di anni di presidenza, sembra essere stato formulato ad usum delphini: in modo semplicistico e a sua volta falso, in un universo mediatico in cui non la menzogna a valle ma la costruzione della notizia a monte è l’ordine di discorso in cui ci si dovrebbe muovere. Per non parlare del concetto di hate speach, che pure viene usato in queste circostanze: scivoloso e imprecisato, quanto altri mai a forte rischio di generare pratiche illiberali e lesive della libertà di espressione individuale (garantita già dal primo emendamento della Costituzione americana, che pertanto andrebbe rispettata da tutti e non soltanto da Trump e da certi suoi facinorosi seguaci).

La questione sta evidentemente a monte, e una politica seria non dovrebbe mai dimenticarselo strumentalizzando gli episodi pur di danneggiare gli avversari. Il problema è che ormai Facebook, Twitter e gli altri colossi del tech, ma non solo del tech (si pensi a Visa e Mastercard che hanno interrotto le transazioni su Pornhub per una inchiesta del New York Times su alcuni video pedofili che mai però erano stati autorizzati dall’azienda), sono per certi aspetti più potenti dei singoli Stati perché agiscono in condizioni di oligopolio gestendo beni e servizi fondamentali, come l’informazione. Possono aziende private arrogarsi dei diritti di regolazione che pertengono agli Stati o comunque a istituzioni “terze” democraticamente legittimate? E per di più agendo non solo extra legem (vedi ad esempio il problema delle tasse pagate solo in piccolissima parte), ma anche ultra legem (cioè in un’ottica sovrastatale)?

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