Cultura, tv e spettacoli

Mondo al contrario?

Cosa ci insegna Miss Zimbabwe bianca

Brooke Bruk-Jackson, 21 anni, è stata incoronata la più bella ma diventa un caso: è bianca

miss zimbabwe

Sciolta dalle sue implicazioni finanziarie, che poi sono quelle più artificiose, la globalizzazione si riduce a scoperta dell’acqua calda ossia che tutto il mondo è paese; un non sorprendente miscuglio di atavico e futuribile. Nelle cose futuribili c’è l’uso compulsivo e isterico dei social anche in un paese a noi sconosciuto e magari considerato tribale come lo Zimbabwe, nel remoto della coscienza diffusa sta la bellezza come elemento magico, di fascinazione e di identità collettiva. Nell’Africa profonda, quasi in fondo, in questo staterello poco più grande dell’Italia, ma popolato 4 volte di meno, che prima conoscevamo, si fa per dire, come Rhodesia, colonizzato, represso, poi evoluto dalla Gran Bretagna, di difficile transizione democratica, reduce da un recente colpo di Stato militare, hanno eletto come la più bella del Paese, miss Zimbabwe, una bianca che più bianca non si può, una Barbie africana che perfino il nome ha di americano wasp, Brooke.

Brooke Bruk-Jackson è la fanciulla diventata caso umano, diplomatico e mediatico, col popolo dei social, come si definisce la massa informe e rabbiosa che volto non ha, pronto a scatenarsi: che schifo, non ci rappresenta, i miei antenati si rivoltano nella tomba, andate tutti a fanculo. Forse anche là spunterà il libro di un generale che discetta su atlete nere “come il carbon” che non rappresentano l’identità nazionale. La povera Brooke prova a spiegarsi, ma da spiegare cosa c’è? Che lei è nata così, è bella così, appartiene al suo Paese così? Ci prova, ma è come insaponar la testa all’asino. Eppure quello che la bersaglia non è razzismo: è umanissimo, atavico senso e bisogno di una identità consolidata. Certo, la punta avanzata di qualche idiota non può mancare – tutto il mondo è paese – ma il razzismo, specie quello africano, è altra cosa.

Il razzismo africano, per chi non lo sapesse, è forse il più duro e spietato della storia: si intreccia e si dilata verso i bianchi, verso altri colori e tipi umani, ma anche implode, si divora da dentro, da Paese a Paese, da etnia a etnia e fin da tribù a tribù. Chi l’Africa la conosce e magari l’ha abitata, come gli italiani, come i tecnici mandati negli anni ‘70 dall’Italsider a Kinshasa, nel Congo belga che allora si chiamava Zaire, lo sa e lo ricorda; il dittatore Mobutu, che nel ‘74 organizzò il combattimento tra i campioni afroamericani George Foreman e Muhammad Ali per il titolo di Campione mondiale dei pesi massimi di boxe, fu sentito, lo racconta lo scrittore Norman Mailer nel suo racconto “La sfida”, mormorare sdegnato all’indirizzo dei reporter di tutto il mondo: “Come osano questi maiali di bianchi venirmi così vicino?”. E le vessazioni, i dispetti, il disprezzo di quella gente per chi andava a spendere, attirato dall’evento sportivo, finirono per costruire un romanzo a sé, un libro nel libro.

Ma le proteste per miss Zimbabwe sono roba diversa. Non c’è disprezzo, c’è insofferenza e paura atavica del diverso, del non compreso. C’è, e va capita, la diffidenza di chi si sente defraudato di qualcosa, magari non sa bene cosa, ma qualcosa. C’è anche, si scorge anche una sorta di insofferenza, alla rovescia se si vuole, per un pensiero woke che non rispetta più nessuna verità storica e culturale: Federico Rampini ci apre il suo nuovissimo saggio, La speranza africana, sull’assurdità di Cleopatra nera, delirante trovata Netflix che ha finito per scatenare un incidente geopolitico allargatosi dall’Egitto a mezzo mondo: e nel suo dilatarsi, a strascico impigliava ragioni e sragioni anche religiose, politiche, strategiche. Ecco, è come se la faccenda si fosse palesata allo specchio, in modo inverso e identico: nel continente nero la più bella di un Paese nerissimo è una bianca candida: come fai a non aspettarti polemiche, mugugni, motivazioni le più disparate, pretestuose, ragionevoli, assurde, condivisibili?

La differenza è che là le opinioni divergenti – ce ne sono: non tutti sono atterriti alla prospettiva della bella ragazza dalla pelle di latte – si esauriscono in qualche polemica intellettuale e qualche scazzo su X; da noi occidentali spalancano voragini di stupidità, paura e delirio, sensi di colpa, con licenza di dare i numeri. In questo la vituperata, “tribale” Africa ci dà, per il momento, ancora lezioni di civiltà: nessuno arriva a sostenere che l’individuo minoritario per pigmento abbia ogni diritto di insultare la comunità dominante, di definire “merdoso” e inadatto a riprodursi il Paese in cui è nato (nata…), perché duecento o quattrocentocinquanta anni fa altri europei ereditavano una colonizzazione da precedenti persecutori arabi o a loro volta africani. L’affaire di Brooke, la Barbie africana non accettata da (parte de)i suoi connazionali, ha suscitato dalle nostre parti ironia fino al sarcasmo, del genere senti chi parla, vedi un po’ da che pulpito…

Invece è un aneddoto a suo modo consolante, confortante: davvero gli umani si somigliano assai più di quanto non si distinguano sotto la superficie, e la perplessità per una miss eccentrica non è altro che la reazione socialmente fisiologica a un piccolo trauma culturale: andrebbe fatto tesoro della storia minima di miss Zimbabwe per capire tante cose, per esempio che “mixing the colors”, come quella vecchia canzone di Iggy Pop, è un concetto molto seducente, molto bello, molto da canzone, ma difficile, più difficile, tremendamente difficile da mettere in pratica: ha bisogno di tempi lunghi, di pazienza, di equilibrio, e le resistenze non sono mai, mai da una parte sola. Alla fine, comunque, vedrete, sarà il mercato pubblicitario a risolvere la faccenda, e tutti vivranno felici e contenti: la miss coi suoi contratti e sponsor, il Paese che ne ricaverà l’indotto mediatico, gli intellettuali che avranno avuto il loro quarto d’ora di esposizione sulla pelle, è il caso di dirlo, di una ragazzina che ha solo la colpa d’esser bella. E bianca. Ma questo non chiamatelo razzismo: è semplicemente umano, troppo umano, con tutto ciò che di bello, di meschino, di ingenuo, di calcolato, di sciocco e di fragile si porta addosso.

Max Del Papa, 27 settembre 2023

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