Cultura, tv e spettacoli

Da gender Fedez ai tre evercringe: il peggio di Sanremo bis

La seconda serata di Sanremo raccontata senza filtri da Max Del Papa

fedez sanremo 2023

Povera Nilla Pizzi, che se le arrivava un mazzo di fiori ringraziava struggendosi, “son rose rosse, parlano d’amor”. Anche oggi a Sanremo le rose sono rosse, tutto è rosso, ma la prima Nulla Pizzi isterica che passa le prende a calci “perché si diverte”, spiega il ciambellano Amadeus. Questa sarebbe la trasgressione sanremese. Anche Chiara Ferragni, dalla sensualità di citofono, è trasgressiva per definizione e si diverte a scrivere e a parlare a se stessa di se stessa, come fanno i megalomani, et pour cause: 5 minuti di delirio per tot clic di N follower, uguale qualche milioncino extra. Per di più la pagano, a Sanremo si paga la gente per essere pagata, ma io i grilli nella pastasciutta non li mangerei mai, mi parrebbe di sgranocchiare Chiara.

Speciale Sanremo:

Fagnani uguale alla Ferragni

Stasera però tocca alla giornalista Fagnani, siamo sempre lì, Ferragni, Fagnani, area Piddì, sempre un po’ così, sensualità diciamo trattenuta, un’altra che come conduttrice non pare granché, ma quale fidanzata del Chiccolino di Open, testata piena di debunker cioè petulanti collezionisti di sfondoni, ma con molto sussiego, tanto di cappello: quel rassicurante senso di famiglia, di ortodossia. Qui assai poco belva e molto, molto ammansita, normalizzata, quasi annichilita: lei prova a dir qualcosa e Amadeus manco la sente. Perfidie degli autori e dei direttori. Così che la sciagurata rispose chiedendo ad Ama se porta le mutande, roba da belve, da giornaliste d’assalto.

Ma se uno viene qui sa lo scotto da pagare. Non fatevi mai fregare, se metti piede qui dentro è perché ti hanno già vaccinato contro qualsiasi virus della libertà, checché ne dica Ferragni: le unghie sono spuntate, le zanne cavate. Vale per tutti, senza eccezioni. Anche per le giornaliste graffianti, come dice zio Ama di questa Fagnani che non è poi tanto diversa da Ferragni: stessa ambizione faustiana, stessa smania egolatrica, stessa abbondanza di banalità più o meno politicamente corrette: per imparare a scendere lo scalone dell’Ariston ha chiesto lumi a Drusilla, un uomo travestito da donna. Drusilla le ha spiegato come fare. E questo è tutto quello che si può dire sulla giornalista un tempo graffiante, oggi ridotta a leggere uno svogliato compitino sulla detenzione minorile all’insegna del compassionismo romanesco, così per dir qualcosa, sapete la vecchia storia garantista per cui se un giovane delinque, carcerario no che poi diventa delinquente. Il provvidenzialismo ottimista statalista, che coi tempi che corrono assume inquietanti sfumature anarco-comprensiviste.

Fedez e il gender, che noia che barba che noia

Oh, ma adesso zitti tutti, basta con queste note dolenti che c’è Fedez, capite, l’altra metà della Ferragnez Inc. Per non sbagliare sponsorizza una compagnia crocieristica. Ovviamente anche lui si narra, si cita addosso, parla in prima persona: sono strategie societarie. Che noia che barba che noia.

Noia, ci sia perdonata la sincerità, come la testimonianza dell’attivista iraniana che ha tutte le ragioni di ricordarci lo strazio della persecuzione nmq sua terra, ma non con quel tono monocorde, piatto, non con quella introduzione idiota, “buonasera a tutte e tutti”, non con quel rompicoglioni di Drusilla che non si capisce cosa c’entri. Ah, ma ecco, si parla di gender, anche la tragedia di un popolo serve a distorcere un senso, a dirottare una realtà, a confinarla a ciò che fa comodo. L’orrore della dittatura al servizio di Drusilla e di quello che rappresenta.

Noia come la vecchiezza che aleggia a dispetto di tutti gli sforzi, di tutti i pupazzi adolescenziali con le loro piattaforme, gli Spotify che Morandi cita come entità misteriose e incomprensibili per chi fece fortuna nell’era dei 45 giri. Gianni deve avere avuto uno choc dopo Blanco, il fluido che inciampa nei petali: si presenta ancora con la scopa, gag senile che manda in visibilio una platea senile. “Gianni dammi il cinque” e Gianni, la manona ancora scottata, si presta, con una smorfia di degnazione: ma che fa il moccioso, si allarga? Comunque l’eterno ragazzo che parla di pillole e di farmaci non è più ragazzo, i segni della carriera e della vita gli sono arrivati in faccia tutti insieme. Sembra così stanco, a volte gli si disegnano sulle rughe “un po’ feroci sugli zigomi” certe espressioni di perplessità dolente. Non essendo lui Chiara Ferragni ma un umano in carne ed ossa, problematico, sensibile, avverte qui tutto il grottesco che forse non aveva calcolato.

Giorgia, i Modà, gli altri autoreduci e i due hipster

Ma, come si dice? Lo spettacolo deve continuare, per i vivi e per i morti. Stasera calano, tra gli altri comprimari, Giorgia, quella che si chiama anche lei così però non rompe i coglioni: invece sì, la sua insulsa canzone è una roba da far cascare in terra le palle e tutto. Poi abbiamo Tananai, che non è un manga ma un menga. Poi abbiamo un ragazzino da merendine con una canzone chiamata Stupido, vedi un po’ gli autori a quali vette di perfidia possono arrivare. Poi abbiamo i Modà il cui cantante Kekko, che non è tedesco ad onta di tutte quelle kappa, ha raccontato d’aver sconfitto la depressione; non proprio debellata, ma insomma la tiene a bada. Sanremo terapeutico. Ed ecco Paola e Chiara, di cui non sentivamo la mancanza, ecco Madame, la neovaccinata. Forse. Bentornata, come stai? Bene Ama e tu? Una roba di famiglia, Sanremo, cosa nostra. Come non fosse successo niente. In compenso non succede niente con questa filastrocca ignobile.

Levante è irriconoscibile, si è trasformata in Madonna, purtroppo l’ultima versione. Come si può credere a una che per dieci anni se la tira da stracciona indie e poi si ripresenta come un esemplare da discoteca trashona? Ma ecco uno, una, ovviamente non si capisce, ha il nome d’arte fluido enigmatico, “SeiTu”, come quelle che vogliono essere chiamate voi, loro, ma no, ha il vocione, dev’essere un maschio, se non si offende, anche se sembra lì lì per infilare la lingua in bocca al sassofonista ossigenato. Ecco altri autoreduci, gli Articolo 31 che cominciarono con la Maria, la marijuana facendo imbestialire il mio amico don Vinicio Albanesi, prete manager scafato ma con residui fondi di ingenuità, e poi son finiti in mascherina; oggi, qui riuniti, raccontano la loro vita, alla Chiara Ferragni, patetismo retrospettivo. Il J-Ax è socio in affari dell’altra metà dei Ferragnez. Ecco certo Lazza che pare pettinato dal mio vecchio barbiere Tonino, che un giorno vennero gli sbirri e se lo portarono via perché sfruttava le puttane materne della pensione Cremona lì davanti. E Lazza rappa: come uomo mi sento un fallito, o qualcosa del genere, e chi siamo noi per contraddirlo? C’è una Shari, o Sciari, che in qualunque karaoke di paese la piglierebbero a sassate e invece sta qua. Una nota la merita pure questa coppia, Colapesce e Dimartino, i due hipster. Mi son letto una intervista, raramente ho trovato tanta spocchia, tanta supponenza, e poi di tanta speme questo ci resta: lo scheletro di uno scarto di Edoardo Vianello, mentre la cantano si impastano pure, che animali da palco, ma allora ditelo che puntate solo a farvi quattro soldi nel modo più pedestre.

Al Bano-Morandi-Ranieri evercringe

E insomma eccola qua l’altra metà di un cast senza primedonne, senza protagonisti, solo comparse e modeste comparse, da avanspettacolo, da miseria musicale. Mi scrive un amico professore di conservatorio: “Gente che non prenderei nemmeno a lezione di solfeggio”. Sarebbero, peraltro, lezioni sprecate. Certo però che è difficile essere tanto negati, non pigliare una nota neanche per scommessa. Quanto agli evercringe, Al Bano-Morandi-Ranieri, altra storia, d’accordo, ma tendono a strafare: qui più che all’eterno ritorno siamo all’eterno revival e francamente non fa bene al cuore sentire ancora quelle canzoni che la maestra ci faceva cantare in seconda elementare, in torpedone, alla scoperta delle meraviglie di Piacenza ducale. Ma Sanremo, l’abbiamo detto, è lievito antico in un forno genderfluid. Quest’anno, emblematicamente, tutto un genetliaco, non c’è cantante che non celebri i trenta, i quaranta, i sessant’anni di carriera. Fino a quelli che, non avendo di meglio, festeggiano l’unico disco, il secondo festival, il compleanno su tiktok, una cosa penosa. Ma tutti, nessuno escluso, si citano e si celebrano. Più memoria che futuro, forse perché il futuro non promette niente di buono.

Sanremo specchio del paese? Se si vuole intendere il gattopardismo ipocrita, la fatica di evolvere davvero, con serietà, con pazienza, se con ciò si allude all’adesione superficiale, estetizzante ai modelli imposti da una modernità incomprensibile, ma pur che il bastone del comando resti in mani usurate, artritiche ma rapaci, allora ci siamo. I muggiti, le ovazioni sbracate, fantozziane sono tutte per questi artisti del secolo scorso da una platea altrettanto metafisica, da quadro di Guttuso, dove il tempo si è sospeso, si è disperso, si è annullato. Mica per gli esangui celenterati glitterati.

Festival di sinistra

L’altra cosa che non passa mai è la solita zoot allure da compagnucci della parrocchietta. Tutto è in tinta qui, rosse le rose calpestate, rosse le parole d’amore e d’impegno di belva Fagnani, rossa la propaganda strisciante ma neanche tanto, si capisce, si capisce, rossi gli impresari, perfino i direttori d’orchestra sembrano usciti dai centri sociali. Strano che qualcuno non saluti a pugno chiuso, come al Re Nudo del parco Lambro e dell’assalto ai polli. I polli in questo caso sono quelli che credono sia tutto genuino e se gli spieghi che no, guarda, ci sono 45 autori, tutti rossi, che si inventano pure le sclerate del Blanco, ti guardano rossi paonazzi di rabbia e sibilano: rosicone, loro hanno i soldi e sono famosi e tu no. Che poi è il senso della lotta di classe marxista. Gli spettatori-adepti stanno comunque sotto gli 11 milioni attesi e la Rai mente a metà quando parla di record assoluto: lo è dell’audience, non del numero assoluto, ma il bombardamento propagandistico prevede solo trionfi così che in sala stampa tutti possano vantarsi.

Senza scomodare Baudrillard o Pasolini, l’abbiamo detto e ridetto che Sanremo è la continuazione del regime con altri mezzi: parafluid, paragreta, paraguru, e paracostituzione, molto para, quella di Benigni. Mai sentito niente di più infantile, il livello è da ora di educazione civica in terza media col professore post trotzkista, ma se una chiara Ferragni esce dalla villa a diecimila a notte, otto bagni per lei e il marito, e vestita da soppressata può far la peroratio di tutte le donne del mondo, cioè se stessa; se Mattarella va a Sanremo a sancire de facto il veto al presidenzialismo con una dimostrazione di presidenzialismo clamorosa; se un pagliaccio ci spiega la Costituzione più bella del mondo finché resta chiusa nel Palazzo d’inverno; se la nuova polemica a sinistra è un fluido che prende a calci le fioriere, allegoria della resistenza anticapitalista di Cospito (il pane e le rose, come già nel rivoluzionarismo contestatario post sessantottino); se la macchina pubblicitaria può vedere meraviglie dove c’è solo imbarazzo e stanchezza, allora tutto è possibile e più non dimandare.

La potente metafora è infine quella del co-ciambellano Gianni che a mezzanotte passata, vagamente stravolto dopo 4 ore di circo demenziale, con le sue manone impugna la ramazza e porta via tutta l’immondizia, musicale e no.

Max Del Papa, 9 febbraio 2023

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