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Domenico Iannacone, quando Rai3 non è Tele-Kabul

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In questo momento sta succedendo qualcosa di “nuovo” in televisione: se da una parte scrittori più di grido che di vaglia stanno trasformando i propri format cartacei in serie televisive (dal “Giovane Holding” Roberto Saviano di “Gomorra” al Niccolò Ammaniti de “Il Miracolo”) senza avere le capacità di un Nic Pizzolatto (lo scrittore che ha creato la serie di culto “True Detective”), dall’altra la televisione sta radicalmente mutando: l’entertainment da sempre maggiore spazio all’infotainment, a quell’informazione che è quasi tutt’uno con l’intrattenimento. Basti seguire un qualsiasi telegiornale per comprendere dove (non) stiamo andando. A ogni tg le notizie si confondono livellando qualsiasi argomento: “2400 morti in un incendio”, “340 morti per un terremoto”, “sparatoria: morto un bambino di 2 anni che stava guardando la partita in un  bar”, “Uomo carbonizzato disciolto nell’acido dopo essere stato dato in pasto ai cani del vicino ignaro”, “È morta la donna che dopo 387 operazioni assomigliava a Barbie”, “Cristiano Ronaldo ancora capocannoniere”, “Arriva il nuovo film di Rambo”, “Buona serata e buona continuazione sui nostri programmi, non cambiate canale”.

Come minimo non dovremmo dormire per giorni dopo l’elenco dei morti, ma invece trasformiamo questa marea di informazioni tutte livellate sullo stesso piano in una ginnastica esistenziale. In questo “barnum”, in questo circo mediatico dove anche la politica a 5 stelle si è ridotta a vaudeville, è difficile parlare ancora di letteratura e soprattutto di letteratura civile. Ed è strano che proprio l’esempio di migliore letteratura civile degli ultimi anni venga dalla televisione: sono I Dieci Comandamenti di Domenico Iannacone che (la domenica sera alle 20.10 su Rai Tre). Iannacone fa una cosa che nessuno fa almeno in Italia: con la voce gentile di un amico e lo sguardo severo di un padre cerca di farci comprendere come la colpa non sia delle istituzioni, ma nostra. La colpa è nostra che ce ne stiamo seduti sulle nostre poltrone, tra i nostri libri, pregando che non ci accada nulla. La colpa è nostra e a noi spetta fare qualcosa. Iannacone è un attore eccezionale perché non interpreta una parte, ma le storie che raccontano si tatuano sul suo viso, come una statua di sale battuta dal vento di una tempesta che sembra non abitare i nostri cuori, così presi a riparare gli spifferi di un freddo che se continua così diventerà gelo. Gelo dei cuori, gelo delle azioni.

Domenico Iannacone è un autore che meriterebbe il Premio Strega, perché le sue non sono solo “cronache dai margini” (delle nostre città, delle periferie che troppo spesso anche se ci abitiamo non sentiamo nostre). Quelle di Iannacone sono cronache dagli argini, argini morali che spetta a noi riempire prima che arrivi definitivamente quella piena che già ci sta portando via. Non sono un critico televisivo, sono un critico letterario: proprio per questo posso dire che Iannacone con I Dieci Comandamenti ha firmato il miglior romanzo degli ultimi 20 anni.

Iannacone non è solo un grande narratore di scrittura televisiva ma uno scrittore che appartiene alla Letteratura del ‘900. Racconta come se le immagini fossero pagine corsare: ma senza la rabbia solitaria di Pasolini, senza il senso della fine di Joe Marrazzo, senza l’ossessione documentaria di Mario Soldati, senza la dimensione martirizzata di Roberto Saviano.

Iannacone ci ricorda quei Dieci Comandamenti che troppo spesso abbiamo demandato ai libri del catechismo di infanzia. Iannacone ha lo sguardo del primo Luciano Bianciardi (quello dei bibliobus tra i minatori della Maremma), ha negli occhi la scrittura del Gadda che lotta contro il “batrace stivaluto”, ha il perdono di un Verga ma senza vittimismo.

Le sue sono inchieste morali che hanno il candore di Comencini (da lì uno sguardo quasi paterno nei confronti di noi, prigionieri della trasparenza della nostra infanzia), l’ironia di Ugo Gregoretti, il rigore di Sergio Zavoli (con i tempi e i silenzi televisivi delle interviste de “La notte della Repubblica”) e la ricerca di temi che avrebbe affrontato oggi Pietro Germi. Iannacone si sporca le mani, “le mani sulla città” le mostra, in certe inquadrature narrative alla Elio Petri, in quel ricordare una narrativa televisiva che è molto vicina a Leonardo Sciascia. E sembra quasi incarnare Calvino se Calvino avesse fatto televisione.

Perché Iannacone sembra applicare al suo modo di abitare le città la lezione proprio di Calvino, dedicandovi “attenzione e apprendimento continui”, riconoscendo “chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno…”.

A noi la scelta se affrontare l’inferno della realtà, per cambiarla, o continuare a vivere tra le fiamme del nostro inferno quotidiano “regolato” da un impianto di riscaldamento centralizzato.

Gian Paolo Serino, 15 dicembre 2018

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