Cultura, tv e spettacoli

È vero che con la cultura non si mangia?

franceschini tremonti sangiuliano

Oltre 10 anni fa venne attribuita a Giulio Tremonti la famosa frase: “Con la cultura non si mangia”. L’ex ministro dell’Economia ha molte volte smentito di aver detto questa frase, invero inutile, se non argomentata. Nel 2022, provocato per l’ennesima volta corresse il tiro, chiamando in causa “tanti giganti della cultura, compresa Sua Eccellenza il ministro Franceschini Dario”, e  disse: “… con la cultura troppi mangiano”.

Espressione forte, ma giustificata? Correva l’anno 2018 quando Paola Dubini diede alle stampe Con la cultura non si mangia (Falso). L’Autrice – dopo una sviolinata a Franceschini (ma che strano) per aver aumentato le risorse della cultura, affermò che la cultura è “portatrice sana” di ricchezza materiale ed immateriale. Da qui andò a sciorinare una lunga serie di dati e numeri ineccepibili nel quantum, meno nell’analisi, perché se da un lato mette nel conto ambiti che sono a latere della cultura, perché esterne agli ambiti dei finanziamenti pubblici di settore  (architettura, comunicazione, design), dall’altro prende ad esempio le innegabili “buone pratiche” delle cuspidi della cultura performativa: la Scala di Milano e l’Arena di Verona, capaci di fare numeri non paragonabili alle altre istituzioni, soprattutto di promozione pubblica.

Nell’aprile 2022, in un’orgia di autoreferenzialità, Franceschini fece uscire Con la cultura non si mangia? In quest’opera “di regime” – che forse sentiva odore di future crisi di governo –  il ministro lasciò queste parole: “La cultura non è solo il racconto di quello che siamo stati e che siamo, è il centro di una strategia per rilanciare lo sviluppo, per costruire un paese più inclusivo e accogliente, più forte nello scenario europeo e internazionale. Un paese aperto al futuro”. Quindi? Per chi ha memoria cinematografica è facile portare alla mente i noti giochi di parole in Amici miei. Se si torna all’analisi della Dubili, che pone il focus sui grandi teatri d’opera – alla luce dei bilanci ufficiali –  il  quadro generale appare ben differente e desolante.

Se si escludono le due istituzioni portate ad esempio (l’Arena di Verona e la Scala di Milano) il contributo pubblico a queste istituzioni ammonta, percentualmente, al 70,24 % dei costi di produzione (stipendi compresi). A fronte di questo la bigliettazione copre solo il 13,91% dei medesimi costi. Altri ricavi e sponsorizzazioni private sono ben poca cosa.  È ben vero che in nessuna parte del mondo l’opera si paga con i soli biglietti, ma qui la forbice è eccessivamente ampia. Sarebbe possibile altrimenti? Le due istituzioni “pilota” della Dubini possono vantare una bigliettazione pari al 38,66 % delle spese di produzione, così come il contributo pubblico è ridotto al 34,04% (sempre delle spese). Questa è sana gestione!

Nel mondo della prosa il quadro è meno parossistico, ma mostra le medesime fragilità. Si potrebbe porre rimedio a ciò? Sulla carta sì. Sarebbe necessario determinare un limite quantitativo del personale, sia artistico, sia tecnico, sia amministrativo (il noto direttore Fabio Luisi ha più volte sottolineato che il personale artistico a tempo indeterminato  – in Italia – è in numero abnorme, rispetto alle sue esperienze all’estero), in rapporto alla volumetria d’affari dell’istituzione di spettacolo; mettere un tetto alle spese per consulenze; parimenti un tetto alle spese per singola produzione e – cosa importante – rendere obbligatoria la prevendita, così da impedire il “taroccamento” dei borderò, pratica tanto comune, quanto ammessa dagli operatori, ma solo quando non parlano di loro stessi. Sogni, pie illusioni!

Le tre associazioni di categoria (AGIS, ANFOS, PLATEA) il “padronato”, in grado di mettere con le spalle al muro qualunque ministro, con la complicità dei sindacati assolutamente autoreferenziati, non hanno interesse a porre rimedio ai guasti del sistema: agli uni interessa soddisfare i solipsimi di registi, attori, scenografi che spesso “giocano” con il denaro pubblico con  grande disinvoltura, rifugiandosi all’ombra dell’”Arte”; gli altri consentono al “padronato” qualunque cosa, fatto salvo che si garantiscano assunzioni spesso inutili e che vengano conservate antiche rendite di posizione. Tutto in barba alla stragrande maggioranza degli operatori (invero troppi) che deve sbarcare il lunario in assoluta precarietà. Eppure è tutto un pullulare di dichiarazioni ed articoli – promossi da soggetti pubblici di ogni colore politico – che esaltano i sempre più frequenti sold out (criminogeno criterio introdotto nelle valutazioni ministeriali) nei teatri, dovuti anche ad una grande partecipazione dei giovani. Dichiarazioni che stridono con studi di settore.

Tre anni fa il Coordinamento spettacolo Lombardia invitò a riflettere sulla crisi del sistema non come crisi dell’offerta, ma come crisi della domanda. I dati non mentono: al di là dei biglietti venduti sono gli over 65 gli unici che vanno a teatro con regolarità, mentre i giovani dopo i 18 anni non ci vanno più, fino ai 45 anni. Il Teatro è un mondo di vecchi, quindi? Si, perché non si vuole dare valore a questo “nuovo” pubblico, utilizzato per fare massa, come gli otto milioni di baionette del duce: inutili!

Precettare giovani, tramite gli istituti scolastici, offrendo assolute gratuità (anche alle prime) o prezzi scandalosamente ribassati non è “formazione del nuovo pubblico”, ma proprio un modo di allontanare i giovani. Certo che vanno a teatro. Gli studenti, conformisti per natura, non si mettono contro il professore di turno, ma vivono l’esperienza in modo forzato e distratto, nella prospettiva degli agognati “crediti scolastici”. La stessa politica dei “prezzi politici” è errata. Viviamo in una società capitalista dove – giusto o sbagliato che sia – le cose e le persone vengono giudicate da quanto costano o da quanto guadagnano. Mettere il biglietto (quando non gratuito) per uno spettacolo d’opera o di prosa che sia ad un prezzo dalle 2 alle 5 volte inferiore a quello per una serata in discoteca (ho una figlia adolescente e, quindi, contezza dei prezzi) è svilire lo spettacolo stesso.

Uno spettacolo d’elite diventa, così, alla pari della sagra di paese. La Cultura per essere tale o è aristocratica o non è. Quante critiche piovvero sulla testa del ministro Sangiuliano, quando impose un biglietto per entrare al Pantheon. I fatti – già da subito –  gli hanno dato ragione. Una cosa che vale trova sempre il suo pubblico; una cosa che non vale abbastanza, no! Se non si desidera che la cultura, come espressione della società di massa, non si declassi in mero svago, come vaticinava Hannah Arendt o si riduca ad una mera “guerra per bande”, per usare una espressioni di Alessandro Gnocchi in un suo bell’articolo su Il Giornale del 29 luglio, fatta di “poltrone, posti, occupazione […]” ha bisogno di scelte coraggiose.

Riprendendo il paradigma di Tremonti è corretto dire che “di cultura molti non sopravvivono, perché non pochi mangiano troppo”

Daniele Biello, 9 settembre 2023

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