Inflazione, da mito a cruda realtà

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Vi sono varie versioni sull’origine del dono profetico di Cassandra. La più nota recita che Apollo le offrì questa capacità in cambio del suo amore ma lei, una volta ricevutolo, rifiutò di concedersi; adirato, il dio le sputò sulle labbra e con questo gesto la condannò a restare sempre inascoltata. Oggi, per antonomasia, è frequente l’attribuzione dell’appellativo “Cassandra” alle persone che, pur annunciando eventi sfavorevoli giustamente previsti, non vengono credute.

Il mio primo articolo per questo giornale, che data ormai quasi un anno fa, parlava proprio dei rischi di inflazione, ben prima che questi si manifestassero in tutta la loro evidenza. Qualcuno, commentandolo, parlava invece di rischi deflattivi. Le difficoltà nell’immaginare gli enormi costi di trasporto delle merci forse erano davvero difficili da prevedere (quanti fra noi guardavano il Baltic dry index qualche anno fa, l’indice dell’andamento dei costi del trasporto marittimo), ma immaginare che l’unione di stimoli fiscali e monetari potesse generare inflazione, forse non era proprio così impossibile da concepire.

Oggi si inizia a parlare di tapering e normalizzazione monetaria, ma le cose vanno viste nella loro interezza per capirne la reale portata. L’enorme debito che soprattutto i paesi sviluppati hanno generato per sostenere l’economia, non lo pagherà certo Babbo Natale come dice spesso un noto giornalista, ma dovranno pagarlo i cittadini, e non sarà di sicuro una passeggiata di salute.

Per mantenerlo sostenibile le Banche Centrali dovranno giocoforza mantenere a lungo una politica accomodante, con il costo dell’indebitamento che dovrà rimanere il più basso possibile (e rendimenti reali negativi) e con una moderata ma persistente inflazione che lo “svaluti” nel tempo.

Prendiamo ad esempio gli USA. Il loro debito pubblico ha superato per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale il 100% del PIL. La FED con novembre ha iniziato il tapering, cioè la riduzione degli acquisti di asset sul mercato. Il processo inizialmente si prevedeva dovesse finire con giugno, ma qualche asset manager vede già probabile la sua fine con marzo 2022 per poi vedere i primi rialzi dei tassi già a giugno 2022. 

Ad ogni modo, alla fine di questo processo ci saranno 120 miliardi di $ di acquisti in meno ogni mese, oltre 1200 miliardi all’anno, ma allo stesso tempo il deficit pubblico scenderà da 3.000 a 1.200 miliardi, con conseguente minori emissioni di Titoli di Stato USA. I minori acquisti della FED saranno quindi più che compensati dalle minori emissioni del Tesoro!

Lato aumento dei tassi, la FED con la sua nuova politica monetaria (FAIT) che prevede che il target di inflazione possa essere flessibile, potrà procedere all’aumento dei tassi con pazienza e gradualità, nonostante questa sia oltre tre volte più alta del suo obbiettivo, nella (oramai si può dire) speranza che questa sia transitoria e torni a livelli più moderati. 

Ma lo sarà davvero? Sono tanti gli aspetti che mi fanno prevedere che nel futuro ci dovremo abituare a tassi di inflazione meno “anemici” di quelli cui ci siamo abituati negli ultimi 20 anni. Oltre ai noti aspetti demografici, monetari, fiscali e di transizione ecologica, vorrei soffermarmi un attimo su due aspetti: costo del lavoro e relativa produttività.

In questa fase, soprattutto negli USA la domanda di lavoro è ai massimi mentre l’offerta non colma questa forte richiesta. Mancano all’appello almeno 3.5 mln di lavoratori per tornare ai livelli occupazionali pre Covid, ma alcuni di loro forse non vogliono cercare oggi lavoro, probabilmente anche per i salari che ritengono troppo bassi.

Alcune catene del settore della ristorazione, ad esempio, per attirare nuovi lavoratori si sono dette disponibili ad alzare i salari fino a 15$ l’ora (oggi siamo attorno agli 10/11 in media) entro il 2024, ma ovviamente questi ulteriori costi per il personale verranno poi scaricati almeno in parte nei prezzi dei menù, generando ulteriore inflazione.

E altri settori li seguiranno, soprattutto il manifatturiero ove già assistiamo al fenomeno dell’onshoring, cioè il rientro della produzione nei paesi di origine. Con la Cina che non sarà più esportatrice di merci a basso costo, bisognerà attirare lavoratori in questi settori, agendo anche sulla leva dei salari.  

Se la produttività in questi settori dovesse crescere velocemente, i rischi inflattivi si ridurrebbero, ma soprattutto in quelli a basso valore aggiunto non è facile aumentarla in modo significativo in tempi brevi. In Italia poi, siamo abituati al tema della bassa produttività in generale. Abbiamo provato ad aumentarla durante il governo Renzi con l’industria 4.0, ma poi si è deciso che per le sorti del paese era più strategica quota 100 oppure il reddito di cittadinanza, non proprio con eccellenti risultati lato occupazione.

Sono molti i fattori che fanno prevedere che l’inflazione sarà con noi nei prossimi anni. Probabilmente non la rivedremo a livelli a doppia cifra come negli anni 70’, ma la scarsa volontà e possibilità che politici e banchieri centrali hanno di metterla sotto controllo, aiutano la sua duratura permanenza. Riflettiamoci, e decidiamo di conseguenza quando posizioniamo i nostri portafogli di investimento.

PS: se qualcuno non ha idea di cosa voglia dire una forte inflazione, basta cercare su Google la famosa foto della donna tedesca che brucia marchi perché valgono meno della legna, per farsene un’idea. Ricordiamoci poi che una forte inflazione cambia poco per chi è povero e non ha nulla, cambia poco anche per i possessori di terreni, case, fabbriche, oro e così via, ma cambia molto per la classe media. Sono questi ultimi quelli che rischiano maggiormente di venirne impoveriti.

Alessio Benaglio, 8 dicembre 2021

 

 

 

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