Economia

IO NON CI STO PIU’: il nuovo urlo di protesta

Economia

Io non ci sto più.

Mi piacerebbe diventasse un claim, uno slogan, una sorta di passepartout verso libertà e consapevolezza, verso la cancellazione di illegalità, inefficienza, incapacità ed intollerabili prosopopee. Dopo 14 mesi di Pandemia credevo di aver visto di tutto ed invece non era così. C’è ancora troppo da vedere o da sentire. Ed è quando ti portano via qualcosa d’importante che ti rendi conto di quanto sia prezioso ogni attimo delle nostre vite e di quanto abbiamo desiderio, oggi, di quella normalità che abbiamo perduto.

Comincio da Io non ci sto più, e non smetterò finche non avrò la percezione che tutto quello che si poteva fare, di corretto, giusto, lecito e competenze si sia in grado di fare.


Io non ci sto più.

Ad ascoltare medici, malati di protagonismo mediatico, confondere le idee alle persone invece che pensare a curarle. Ma quelli che vanno in tv e ci vanno spessissimo, ma proprio non hanno niente da fare nei loro rispettivi ospedali?


Io non ci sto più.

Ma prima voglio fare un passo indietro e raccontarvi il perchè della mia rabbia e da dove parte.

 

Il 30 marzo per me è un giorno speciale. Lo è dalla mattina di quel 30 marzo del 2003. Faceva freddo la notte precedente. Il telefono squillò intorno alle 5.00. Mi alzai dal divano di soprassalto, ero ancora vestito come la sera prima. L’ambulanza era già pronta, io avrei dovuta seguirla in auto. Da Castel di Sangro mentre le luci dell’alba riprendevano lentamente forza sul buio della notte, arrivammo all’ospedale di Chieti.

Era il 2003, non il 1703. Eppure mia figlia non aveva diritto di nascere nell’Ospedale che avevamo a due passi da casa nostra. Essendo in leggero anticipo rispetto ai tempi previsti e non essendoci i crismi minimi di un reparto di neonatologia, con grande scrupolo professionale, il ginecologo che seguiva mai moglie consigliò il trasferimento in un nosocomio più attrezzato alle eventuali necessità determinate dal parto anticipato. Il viaggio durò poco più di un’ora.

Il travaglio molto di più.

Chiara è nata alle 15.00, alle 3 del pomeriggio di quel 30 marzo (3) del 2003. Da allora, da quel viaggio, da quando è entrata a far parte della mia vita, non ho mai perso neanche uno dei 30 marzo successivi.

Fino all’ultimo.

Fino al giorno del suo diciottesimo compleanno.

Fino al 30 marzo del 2021.

Ho sempre fatto di tutto per esserci. Ho preso aerei da posti ed in orari improponibili pur di essere semplicemente lì con lei.

Anche in quei giorni in cui le feste con le sue amiche del cuore neanche mi permettevano di starle vicino.

Eppure c’ero. Ero lì per lei. E questo mi bastava. Mi faceva star bene. Non so neanche se Chiara se ne sia mai resa conto. Ma io sapevo di esserci, di aver fatto in modo da essere lì con lei. E’ accaduta la stessa cosa più tardi con la nascita di Arianna.

Ma il 30 marzo del 2021 non c’ero.

Ed era il suo diciottesimo compleanno. Il giorno che forse un ragazzo o una ragazza della sua età aspetta con maggior ansia. C’è la voglia di sentirsi grandi, indipendenti, c’è il desiderio di sentirsi cresciuti, adulti.

Ed io non c’ero.

Non è stata colpa mia ma non c’ero.

E la cosa migliore che potessi fare era non esserci.

Ma non credo mi passerà mai il senso di tristezza che provo per non averla potuta guardare negli occhi a mezzanotte.

Chiara e Arianna sono la mia proiezione futura. Ebbene è come se mi avessero strappato via un pezzo di quel futuro che vorrei, come credo desideri ogni genitore per i propri figli, potesse essere pieno di vita sana, di benessere e felicità.

Non vedo le mie figlie da quasi 20 giorni, da quando, più di due settimane fa, sono dovuto rientrare a Milano per lavoro. Ed in questi giorni io e Chiara non abbiamo fatto altro che litigare.

 

Lei voleva una festa come l’abbiamo avuta in tanti nella nostra vita per i nostri 18anni.

Personalmente parlando, il mio 18esimo coincise con una data particolarissima per il calcio azzurro. Fu il giorno in cui Pablito rifilò tre gol al Brasile, a casa mia c’erano una quarantina di amici e più che una festa di compleanno fu un tripudio indescrivibile era il 5 luglio del 1982. Una settimana più tardi l’Italia avrebbe vinto il Mundial spagnolo battendo in finale la Germania.

 

Chiara avrebbe voluto una festa, pur consapevole di non poterla fare. Ma aveva bisogno di prendersela con qualcuno ed io ho lasciato volentieri che usasse me per i suoi motivi di sfogo. Questi ragazzi in qualche modo dovranno trovare un exit strategy psicologica a tempi che stanno irrimediabilmente cancellando una parte determinante del loro percorso di crescita e delle loro vite.

 

Le cose succedono.

Che una Pandemia si possa sviluppare –  ce lo insegna la storia – ma che non si faccia nulla per migliorare lo stato delle cose, questo non è più accettabile.

E’ fin troppo facile girare il coltello nella piaga e scrivere di monopattini e di banchi a rotelle, molto più difficile è parlare dell’enorme quantità di morti che abbiamo registrato in questo Paese. Non è accettabile la distribuzione di mascherine fuorilegge. Non è più accettabile che persone incapaci siano in ruoli che influenzano la vita di milioni. Non è possibile che persone – delinquenti più che persone – approfittino di ciò che accade per arricchirsi alle spalle di gente spaventata a morte da una comunicazione che andrebbe rifondata dalle sue basi.

Io non ci sto più. A sentirmi costantemente citare i bollettini di decessi e contagi e non mi si dica nulla per educarmi ai giusti comportamenti. Che non mi si diano buone notizie.

Io non ci sto più. Ad ascoltare ogni giorno politici che non sanno quello che dicono o che si contraddicono costantemente.

Io non ci sto più. Non è possibile che un mio amico per fare un tampone a casa abbia dovuto farsi raccomandare e sborsare oltre 170 euro.  Ma non finisce qui perché ho sentito una centralinista di un’importante clinica milanese prendere un numero di telefono e girarlo ad un’azienda esterna a quella per cui lavorava in quel momento e favorire, a prezzi esorbitanti, le richieste di Tamponi a domicilio che, invece, la clinica non garantiva.

Io non ci sto più. Non posso accettare di essere trattato come un demente da chi non ha neanche idea di cosa stia davvero succedendo.

E’ passato più di un anno da quel 21 febbraio del 2020, dal giorno in cui tutto è cominciato. E dopo un anno l’unica cosa che ci resta è l’incertezza.

Quando si segue la strada e si nota come quella strada non porti da nessuna parte, non è il caso di cambiare strada e cercare nuovi percorsi? Magari anche inesplorati?

Siamo preda di una politica incomprensibile e sempre più lontana dalla realtà, pericolosamente lontana dalla realtà, che lascia gli incapaci a fare ciò di cui non hanno alcuna idea responsabile.

Se abbiamo bisogno di tecnici per l’economia allora usiamo i tecnici anche per la sanità. Sia un medico specializzato a dirmi cosa fare o non fare, perché chiudere o aprire una finestra, un balcone, un terrazzo, una spiaggia, un ristorante a pranzo o a cena.

Io non ci sto più a vedere le scuole aprire e chiudere, diventare centro di contagio un giorno si e un giorno no. Voglio sapere da genitore se sono sicure per i miei figli, se sono sicure per le famiglie una volta che i figli tornano a casa. O sono sicure o non lo sono. O si è in grado di renderle sicure o non lo si è.

Io non ci sto più a non denunciare tutto quello che non funziona, perché spesso illegalmente dimensionato.

Io non ci sto più perché finiscono in un calderone anche tutti coloro che invece il loro lavoro lo fanno straordinariamente bene, tra mille sacrifici e mille preoccupazioni.

Io non ci sto più a veder girare sul web filmati in cui politici italiani sembrano conoscere in anticipo ciò che sta per avvenire e a non trovarne riscontro nelle indagini di almeno un magistrato.

Io non ci sto più a sentire parlare di vaccini ed a non sentire parlare di cure. Eppure le cure ci sono.

Lo volete sapere? In calce all’articolo trovate l’ elenco pubblicato da Eurosport di tutti i calciatori di serie A che sono stati positivi o che lo sono ora, squadra per squadra. Sono tanti, eppure quando si ammalano si da per scontato che di lì a qualche giorno torneranno ( così avviene ) regolarmente in campo. Non c’è masi stato nessuno che abbia espresso il ben che minimo dubbio in tal senso. Il calciatore si ammala, si cura, guarisce e torna a giocare. Non c’è qualcosa di anomalo in tutto questo percorso rispetto a quello di milioni di cittadini? E solo spiegabile con la forza fisica e l’età media bassa o c’è dell’altro?

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