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Porti Usa: sulle Presidenziali soffia lo spettro della rivolta

Ogni giorno lo sciopero dei portuali brucia 5 miliardi di dollari: 220 navi container già bloccate in banchina. Nella storia segnali e precedenti inquietanti. nel 1960 il caso Genova

Cinque miliardi per ogni giorno di sciopero…altro che i “sei pence” della canzone che ripetevano ossessivamente a squarciagola i portuali di Londra, per esorcizzare, durante il grande sciopero del 1889, i crampi della fame e della miseria.

Il blocco nel quale si sono compattati gli oltre 45.000 portuali della costa atlantica degli Stati Uniti, sotto il vessillo della International Longshoremen Association (Ila), come allora (in un quadro ovviamente ben differente) rischia ogni giorno di più di trasformarsi in una trappola mortale per la politica, in questo caso americana alla vigilia delle elezioni presidenziali.

Da quasi tre giorni in sciopero con una rivendicazione di aumento salariale di oltre il 70%, ma anche uno scontro frontale contro i processi di automazione destinati a sforbiciare gli addetti di chi lavora in banchina, i portuali hanno costruito le premesse per una reazione a catena, che coinvolge in primis il Partito democratico, il Presidente Biden e il candidato alla Casa Bianca, Kamala Harris, ma rende anche difficile la posizione di Donald Trump.

Entrambi i candidati,  si trovano ad affrontare una devils alternative; a oggi la Casa Bianca (e anche Trump) ha ribadito il pieno appoggio alle rivendicazioni dei portuali, anche se pochi mesi fa aveva respinto le richieste contrattuali degli scioperanti; oggi i contendenti alla Presidenza sono tutti paladini dei portuali inviperiti dalla mancata revisione del contratto e dei salari, e pronti a un combattimento a oltranza contro le grandi compagnie di trasporto container che (prima con il Covid, quindi con il caos geopolitico in Medio Oriente e ora anche con lo sciopero in atto hanno aumentato noli e registrato profitti da oltre 30 miliardi ciascuna) senza riconoscere un centesimo a chi sulle banchine dei porti lavora. Nel mirino dl sindacato anche gli spedizionieri e chi gestisce i terminal accusati di imporre aumenti record per la movimentazione dei container. Anche in questo caso senza riconoscere ai portuali anche un solo centesimo in più rispetto alle paghe bloccate da oltre dieci anni.

Nella stanza Ovale tutti d’accordo: bisogna distribuire qualcosa ai portuali, ma cosa accadrà quando, ogni giorno si fermeranno i trasporti camionistici e ferroviari, quando un numero crescente di fabbriche (in primis quelle dell’automotive) si bloccheranno e dovranno congelare la produzione, paralizzata dal blocco di oltre il 57% delle importazioni americane che transitano attraverso i porti della East Coast e del Golfo.

Cosa accadrà fra 3, 5 o 7 giorni, quando salterà il banco?  Quando armatori e terminalisti si rifiuteranno di garantire aumenti ai portuali, quando insisteranno nella volontà di non revocare  gli extra sui noli, quando l’industria chiederà una immediata ripresa del lavoro e non una escalation dei prezzi di trasporto, quando industria e porti si troveranno inevitabilmente a percorrere due strade contrapposte?

Chi e come la politica difenderà interessi economici contrapposti quando le oltre 200 navi portacontainer con una capacità di trasporto di oltre un milione di container, resteranno, come sta accadendo, bloccate in porto e altrettante dovranno cercare soluzioni di emergenza per evitare settimane di blackout in mare aperto. E cosa accadrà quando il blocco di importazioni ed esportazioni sarà totale, innescando una reazione a catena nei porti dell’Europa, del Sud America, dell’Africa e dell’Estremo Oriente?

E come l’impatto sullo scenario politico americano e sulle imminenti elezioni diventerà incontrollabile?.

La storia, specie quella dimenticata, dovrebbe insegnare qualcosa. Lo sciopero dei dock di Londra del 1889 fu una vertenza industriale che coinvolse i lavoratori portuali del porto di Londra. Scoppiato il 14 agosto 1889, si concluse con la vittoria dei 100.000 scioperanti, che ottennero la rivendicazione di un salario di sei pence all’ora, e collocò una pietra miliare nello sviluppo del movimento operaio britannico attirando sul problema della povertà l’appoggio anche delle classi medie inglesi.

Da quello sciopero in avanti, i porti in tutta Europa hanno conquistato una capacità diffusa, senza pari rispetto ad altri settori dell’economia nazionale, di condizionamento del quadro politico. E’ successo in Francia dove scioperi a oltranza e il blocco delle banchine hanno provocato crisi parlamentari.

Nel 1960 i camalli di Genova che disintegrarono il governo

In Italia, i porti hanno disintegrato un governo: lo sciopero dei camalli genovesi e la rivolta del 1960 che  provocò la caduta del governo Tambroni. Le immagini ricordano ancora le camionette dalla polizia rovesciate nella fontana di piazza De Ferrari, gli scontri con i portuali armati di gancio e appoggiati dalle organizzazioni di sinistra e dell’Associazione partigiani, il centro storico di Genova trasformato in un campo di battaglia. Il tutto nel segno di un porto in grado di disintegrare anche solo l’ipotesi di un governo DC con l’appoggio del Movimento Sociale Italiano.

Ricordi lontani, ma una constatazione attuale: solo i porti (la cui funzione strategica è stata sottovalutata e non solo in Italia) sono in grado di precipitare in una situazione fuori controllo il quadro politico e sociale. Un pericolo ormai tangibile negli Usa dove sono iniziati picchetti e cortei in  pieno countdown per le elezioni presidenziali.

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