Fate un regalo all’Italia, mettete il veto alla riforma del Mes

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L’Italia si faccia un regalo per il 2020: ponga il veto in sede Ue alla riforma del Mes. Lascio da parte – solo per noia e per sfinimento – gli aspetti di metodo, pure rilevantissimi, e cioè il fatto che, nel giugno scorso, Giuseppe Conte abbia dato il primo via libera a nome dell’Italia in un Consiglio europeo nonostante una risoluzione parlamentare (approvata il 19 giugno) lo vincolasse a non accettare condizionalità negative, e in ogni caso a investire di nuovo le Camere. E lascio anche da parte il tentativo recentissimo (onestamente poco glorioso) da parte del ministro Roberto Gualtieri di accreditare presunte novità nella normativa secondaria e di dettaglio, che lo stesso sito del Mes – di fatto smentendolo – ha riproposto come tecnicalità già esistenti e destinate a permanere, indipendentemente da qualunque richiesta italiana.

E lascio anche da parte argomenti ideologici: sono tra quelli che, pragmaticamente, ritengono che una forma di “assicurazione” europea possa essere teoricamente utile. E soprattutto sono tra quelli che ritengono che l’Italia dovrebbe affrontare il tema del suo debito pubblico, con operazioni di valorizzazione (attraverso l’istituzione di un apposito fondo: esistono da anni proposte anche molto diverse tra loro) che potrebbero ridurre lo stock complessivo di debito, e tagliare anche i relativi costi annui. Il problema – è la vecchia storia del diavolo che si nasconde nei dettagli – sono i meccanismi che si scelgono, come nel caso della riforma del Mes.

Dunque, al di là delle narrazioni di comodo, è il caso di concentrarsi sul punto di fondo, senza distrazioni e divagazioni. Con il vecchio Mes la ristrutturazione del debito di un paese in crisi era considerata una circostanza eccezionale; con la riforma del Mes, invece, essa diventa un evento più probabile e ordinario, con tutte le devastanti conseguenze del caso. Per quale misteriosa ragione un paese ad alto debito come l’Italia dovrebbe esporsi a questo rischio?

E qui al danno si aggiunge pure la beffa, rappresentata dal fatto – come si diceva – che, anziché rovesciare il tavolo ponendo il veto, il governo è sembrato divertirsi masochisticamente nelle ultime settimane a discutere sui dettagli dell’ipotesi più catastrofica (e sul funzionamento delle famigerate clausole Cacs), comportandosi (questo è il messaggio inevitabilmente trasmesso agli investitori) come se si trattasse di una eventualità concreta e seriamente presa in considerazione. Capite bene che sta proprio qui l’incaprettamento: concorrere al peggioramento delle aspettative degli investitori sui titoli italiani.

In concreto, cosa rischia di accadere? Sia in presenza di uno choc (una fortissima tensione sui mercati prodotta da un evento eccezionale), sia in presenza di una crisi meno drammatica ma pur sempre significativa (ad esempio, problemi nel commercio internazionale), e perfino nel caso ordinario delle consuete aste dei titoli del debito pubblico, gli investitori non potranno non tenere conto del fatto che la ristrutturazione del debito è diventata un’eventualità concreta, e che – in quella prospettiva – ci sono – per così dire – paesi di serie A e di serie B. Inutile dire che per questi ultimi i rendimenti richiesti saranno più elevati, con un progressivo effetto di strangolamento, o comunque – nella migliore delle ipotesi – con il rischio di una lenta asfissia.

Per questo, basterebbe mettere il veto. Operazione senza conseguenze, tra l’altro: perché resterebbe operativo l’attuale Mes, con le vecchie regole.

Daniele Capezzone, 23 dicembre 2019

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