Fine di un impero?

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Speciale zuppa di Porro internazionale. Grazie a un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.

Philip Stephens vice direttore del Financial Times, responsabile della pagina editoriali e opinioni, nonché rinomato commentatore politico, analizza il 9 maggio sulle pagine del quotidiano della City (e del Nikkei) gli orientamenti della politica estera di Donald Trump e la paragona a quella britannica della fase della decadenza dell’impero, quando l’egemonia globale stava svanendo ma rimaneva la nostalgia per il passato glorioso. Stephens naturalmente è consapevole come gli Stati Uniti oggi siano incomparabilmente più potenti del Regno Unito negli anni ‘50, ma ugualmente sentirebbero svanire la loro influenza sul mondo e psicologicamente reagirebbero analogamente alla passata Londra, irrigidendosi nell’isolamento.

La strada da seguire invece sarebbe quella tentata, pur maldestramente per alcuni versi, da Barack Obama di implementare il sistema di regole e istituzioni globali impostato da Washington dopo il 1945 che tanti vantaggi aveva dato all’economia americana. Ecco un’analisi che mi sembra radicalmente sbagliata: non sono le regole e le istituzioni globali che hanno determinato equilibri favorevoli agli Stati Uniti, bensì al contrario sono gli equilibri costruiti con la vittoria nella seconda guerra mondiale, Yalta, la centralità del dollaro, la deterrenza nucleare, la Nato (e la Seato), la guerra di Corea, la difesa di Berlino, la pur insensatamente gestita guerra del Vietnam, il sostegno alla resistenza afghana e così via che hanno consentito l’affermarsi di regole e istituzioni prima basata sull’alleanza occidentale e poi globali.

L’errore del trio che ha condotto allo sbando la politica estera americama (oltre a Obama, Hillary Clinton e John Kerry) è stato quello invece di considerare ormai risolta la questione degli equilibri internazionali e di esercitare l’influenza americana sul mondo come se non esistessero più vere questioni politiche, puntando a costruire relazioni politiche e commerciali senza una riflessione strategica che le sostenesse: così con la Cina, così valorizzando e poi tentando di punite Recep Erdogan, così promuovendo un appeasement con Teheran, così facendosi imbrogliare sull’ambiente da tedeschi e cinesi, così gestendo le questioni del commercio come se ci fosse ancora la Guerra fredda e Washington dovesse trascurare i propri interessi strategici per sostenere l’alleanza contro Mosca.

La risposta di Trump sarà rozza ma è miracolosamente realistica: le condizioni di favore sul commercio ai cinesi potevano essere giustificate dal sostegno alla politica di sviluppo senza egemonismo impostata da Deng, non a quella tendenzialemte imperialista di Xi, il douce commerce non ha convinto Teheran che ha usato i guadagni da non sanzioni per finanziare interventi militari in Libano, Siria, Irak e Yemen, Erdogan deve essere posto di fronte alla scelta di aderire a un equilibrio ispirato da valori liberali e il finanziamento dei vari movimenti terroristici guidati dalla Fratellanza musulmana, Parigi e Berlino devono scegliere se costruire un fronte occidentale o un multilateralismo dove tutte le vacche sono bigie e si può fare retorica sull’ambiente e truccare i motori diesel o le soglie di anidride carbonica, non pagare il dovuto per la Nato e così via.

Può darsi che chamberlainamente ci si debba arrendere a un mondo guidato da quella potenza opaca che è la Cina di Xi: non manca chi pensa che ormai la civiltà greco-giudaico-cristiana abbia esaurito la sua capacità espansiva. Comunque questo sarebbe un approccio realistico, quello delle favolette alla Stephens sul mondo che c’era una volta, invece, scarta dalla concretezza dei fatti.

 

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