I cinesi amano l’Italia. Meno Hong Kong

Cronache di un altro mondo

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È incredibile come ci si debba spostare all’estero per capire quanta siano forti gli imprenditori italiani. Per la verità anche restando a casa nostra, e precisamente a Milano, si capisce bene la forza della nostra industria nel design. Il Salone del mobile è forse una delle manifestazioni più cool e ricche nel mondo, e ha soppiantato financo la moda. Ma arrivare a Shanghai, dall’altra parte del mondo, e farsi trasportare da una guida rossa nell’immenso salone dell’Exhibition center, il palazzone liberty donato da Stalin e Mao, e leggere i nomi di Kartell, Molteni, Polinform, Artemide, Porro, Veneta cucine, Villari, Edra, Minotti e un altro centinaio di nomi del mobile e del gusto italiano, fa una certa impressione.

Il Salone del mobile si è trasferito per la quarta volta a Shanghai. 127 brand, oltre 20 mila investitori, e duemila cinesi, tra designer e architetti, incantati dalle letture dei nostri maghi del design. I biglietti sono a numero chiuso, tanto che all’ingresso, quasi fosse un concerto, ci sono i bagarini che lo vogliono vendere a 80 euro, contro i 20-25 del costo alla prenotazione. Insomma un pezzo di made in Italy, una buona fetta della Brianza ma non solo, che cerca di conquistare la Cina. Mentre il governo cerca di perdere l’Ilva e tratta l’ennesimo prestito ponte per Alitalia, non c’è praticamente uno degli espositori che si occupi delle cose politiche di casa nostra, e tanto meno che sia arrivato a Shanghai con un volo Alitalia, che non c’è.

È piaciuto lo speech iniziale di Ivan Scalfarotto, forse per quella sua citazione pro libero scambio di Bastiat (ma lo sa, Scalfarotto, cosa pensa dell’industria di Stato e delle tasse l’economista francese?) per il quale «quando non passano le merci, passano le armi». Questi sono imprenditori veri, gente che non si aspetta nulla dallo Stato, che ancora si sbatte per vendere il suo prodotto, e sogna di poter vincere contro tutto e tutti. II presidente del Salone, che ha scommesso sulla sua gemmazione internazionale, Claudio Luti, patron della Kartell, gira educatamente da un’intervista altra. Sempre elegantissimo non capisce bene se la giornalista che lo ha inchiodato è una youtuber cinese da dieci milioni di follower o e della rete di Stato. Poco importa: è la grande festa del nostro mobile, del nostro design. E soprattutto della nostra impresa. Quella che se lo Stato facesse di meno nelle regole e nelle tasse, e facesse di più nella sicurezza e nella giustizia volerebbe. Per il resto ci pensano loro.

Eppure a solo un paio di ore di volo, a Hong Kong, il clima per made in Europe, per il lusso è tutto un altro. Gli scontri con gli studenti hanno, ovviamente, monopolizzato l’informazione. Ma il pessimismo degli italiani che da anni vivono nell’ex coIonia inglese è elevatissimo. Hong Kong non ritornerà più quella del 2014, in cui si vendeva tutto. Canton road (la strada del lusso più importante del mondo con Fifth avenue e via Montenapoleone) ha visto ridotte almeno del sessanta per cento le vendite. Tutti in sofferenza: da Vuitton a Prada, da Ferragamo a Dior, da Hermes a Bulgari. Persino Gucci soffre nelle vendite.

Le grandi case del lusso nelle ultime settimane si sono trovate nell’imbarazzante situazione di non coprire con le vendite il costo degli onerosissimi affitti. Sono subito partite le richieste di riconsiderare le pigioni con i giganti quotati dell’immobiliare, da Wharf a Swire: niente. Le case di moda hanno dovuto rivedere i piani di retribuzione dei propri venditori, che fino a poco tempo fa erano per circa la metà su commissione delle vendite realizzate. Sono iniziati anche a Hong Kong ad arrivare salari minimi e riduzione degli orari di lavoro. Il Rosewood, un hotel di lusso appena aperto, e che doveva essere «the place to be» ha un tasso di occupazione ridicolo. Le grandi e storiche catene vendono le stanze a prezzi un tempo considerati ridicoli.

I cinesi non amano più Hong Kong. Per due motivi soprattutto. Le notizie dei disordini che arrivano a Pechino, Shenzen o Shanghai diciamo che non sono esattamente equilibrati. L’umore verso gli studenti che protestano in piazza non è certo quello che abbiamo noi europei. E anche, più banalmente, moneta cinese (che si è deprezzata rispetto al dollaro hongkonghino) e tasse fanno il resto. La Cina, viene quasi da ridere al solo pensiero, ha infatti deciso dal primo aprile del 2019 di abbassare l’Iva dal 16 aL 13 per cento. Dunque il tax free di Hong Kong è diventato proporzionalmente meno conveniente. Verrebbe da dire: cronache di un altro mondo. Ma è il nostro, e più vicino di quanto si immagini.

Nicola Porro, Il Giornale 23 novembre 2019

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