Politica

Cultura culinaria

Il cibo italiano caviale dei poveri: ha ragione Lollobrigida

Raccontano che Franco Fortini, il poeta, sconsigliasse su tutti un argomento, la cucina: “Parla di tutto ma lascia stare il cibo”. La gastronomia come terreno minato su cui un intellettuale può saltare ogni momento. Fortini era il classico letterato antifascista per rigetto del Fascismo, che poteva guardare al paese col cinismo della ragione, un marxista più disperato che fiducioso, consapevole che se tutto in Italia è occasione di divisione e di odio, il “mangiare” lo è più di tutto perché intriso di localismi, di campanilismo, di familismo amorale, fino ad una koiné domestica spietata, la roba come la cucinava mia madre e mia nonna, imparagonabile, insostituibile, fonte di mortificazione sicura per la sposa, almeno finché non avrà imparato la lezione, in forma di ricetta; e si va sempre a parare, a parlare di alimenti poveri, perché la nostra cucina, questo almeno speriamo si possa ancora dire, è povera per elezione e per vocazione: la cucina d’ingegno e di necessità, saporita, degli olii, delle paste, del burro che ormai nessuno usa più, degli intrugli di chi ha poco ma non per questo si deprime, si mortifica.

Il tutto a riverbero nella cultura popolare e nella letteratura di consumo, da Pantagruel che è maschera rabelaisiana ampiamente naturalizzata, al Maigret italianizzato e dunque ghiottone di Gino Cervi, per mille e mille esempi, fino al Montalbano che esorcizza i suoi tormenti davanti agli omerici piatti di pesce di Enzo a mare, che viaggia da una ammazzatina all’altra “e d’improvviso gli smorcò un pititto lupigno”. Nel suo indagare finisce in casa di un funzionario comunale, uno di quegli scapoli disgraziati, tristi, rimasto pure senza madre, “Ma non per questo mi faccio mancare le buone cose”: e al commissario salito un attimo per due domande offre la pasta coi broccoli con tanto di ricetta segreta, e l’altro non sa resistere.

Il ministro Lollobrigida non ha gli scrupoli di Fortini e, poveretto, sconta un po’ l’effetto Pierino e il lupo: talmente avvezzo alle gaffe che anche quando ne dice una buona lo azzannano: va al Meeting di Comunione e Liberazione, questa tappa obbligata per chiunque voglia durare nel potere, e forse per lo stesso Gesù Cristo casomai si facesse rivedere, a dire che in Italia spesso i poveri mangiano meglio. Ovviamente la sinistra stupidamente fanatica si scatena, i suoi tentativi di estate militante sono penosi e non lo è di meno quel voler rintracciare uno straccio di lotta di classe per ogni sentiero, anche gastronomico.

Invece il Lollo ha ragione o almeno tutti i torti non li ha. I poveri mangiano meglio? Sì, non perché siano poveri ma perché, da poveri, storicamente hanno appreso l’arte di “non farsi mancare le buone cose” a tavola e se la sono tramandata. Mangiano meglio rispetto ai poveri di altri paesi, per esempio gli americani dove in sette su dieci sono obesi per la totale assenza di cultura alimentare, una lacuna storica che riflette il paese eternamente giovane, condannato all’immaturità.

Mangiano o se preferite mangiamo meglio, da poveri, perché tutti vengono a mangiare qui, potendolo, al netto degli scontrini killer e delle truffe di sempre più ristoratori felloni ed esterofili; perché abbiamo saputo finora, ma, attenzione, anche questa è una prerogativa che l’Unione si è messa in testa di amputare, difendere una tradizione fatta di gusto, di sapienza popolare, non priva di una certa eleganza umile: “Maccherone, tu m’hai provocato e io me te magno”, l’eterno grido di ribellione del povero, il Meniconi Nando che si stanca presto delle porcherie esotico-energetiche industralizzate, che rinsavisce per via palatale. Anche un modo ribaldo per difendere una identità popolana: Alberto Sordi incontra l’avvocato Agnelli che lo invita a cena in una delle sue magioni, insieme a un gruppo di amici di rango, ma quando gli passano davanti “un patè de foi gras, du’ foje de lattuga, ‘na crosta de formaggio e poi arivano i caffè”, il grande attore non si tiene: “Avvocato, lei mi aveva invitato a cena”. “Sì, caro, c’è qualcosa che non va? Gradisce forse uno spaghetto?”. “Certo che voglio lo spaghetto!” e in fretta e furia fanno servire una cofanata di aglio e olio su cui gli avventori perdono ogni sussiego e viltà, si avventano mugolando. Anche Fantozzi, il travet eterno perdente, dà il meglio e il peggio a tavola ma la tavola è scenario imprescindibile delle sue disgrazie, della sua indomita vitalità senza speranza.

Che avrebbe detto il ministro agricolo Lollobrigida di così scandaloso? Che, finché il Nutriscore e gli altri Moloc fenici di Bruxelles lo concederanno, in Italia anche un povero può reperire prodotti genuini, di accettabile qualità a un costo accettabile; che in altri paesi chi ha i soldi mangia, spesso male, e chi non li ha trangugia da cani. E questo sarebbe un vulnus anziché l’ultima Thule? La faccenda ridicola è che a dare addosso al Lollo sono gli eredi del comunismo emiliano, delle Feste dell’Unità che hanno reso accettabile o per lo meno umanizzato il marxismo a forza di salamelle, di tortellini, di lasagne. E oggi si svendono anche quell’ultima testimonianza popolare, per quali arcane ragioni resta arduo da capire così come resta misteriosa la avversione della sinistra globalizzata verso il popolo, sempre più ricacciato alla dimensione plebea, come per un curioso cortocircuito della storia.

Dove se mai il ministro è renitente, o distratto, è proprio sul pericolo che anche questo retaggio finisca per estinguersi secondo una tendenza non solo ideologica ma cretinamente modaiola già in atto. Lungo i Navigli come nel minuscolo borgo marinaro, una invasione di localetti che sembrano vergognarsi dei piatti locali e ne propongono di improbabili, di pretenziosi, intrugli indigeribili, pappine, panini a silo, immangiabili, mattoni che non saziano, che fanno passare l’appetito. E qui c’è bisogno davvero di ricostruire una cultura che va evaporando, che l’Europa, e ce lo ricorda ogni giorno, non accetta più e della cui intolleranza si fa portavoce la virologia coglionesca.

Si può capire l’idea, largamente sfruttata, perfino logora e magari un po’ ridicola, a metà fra retorica patriottarda e buoni affari, di rendere la cucina tricolore patrimonio dell’Unesco, di farla viaggiare sulla Vespucci “per 31 porti del mondo”, gli chef come dei nuovi Magellano. Ma queste in fondo sono solo le trovate di parata della politica. Più serio, più urgente che tutti, a cominciare da questi chef che si sono montati la testa, sappiano mantenere o recuperare uno spirito, un genius loci senza cedere a “facili entusiasmi e ideologie alla moda”, per dirla con il Vate, almeno tra i fornelli. Senza vergognarsi, altro Vate, della nostra “cucina così povera ma sincera”. Qui ci fermiamo, memori dell’insegnamento di Fortini, ma affatto consapevoli che “il mangiare” lega e divide, eccita, ispira, soddisfa e preoccupa come in nessun altro luogo al mondo. Togli a un italiano la sua cucina, anzi le sue cucine, diverse e uguali dalle Alpi a Capo Passero, e gli togli il suo paese, la famiglia, l’identità, gli togli se stesso.

Max Del Papa, 25 agosto 2023

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