Il ritorno di Nigel Farage

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Speciale zuppa di Porro internazionale. Grazie a un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.

Con due articoli del 10 maggio – uno di Sebastian Payne e di George Parker (il primo cura per il Financial Times i problemi del governo, l’altro è della redazione politica) e un secondo di James Blitz, redattore della sezione politiche del governo – il quotidiano della City (e del Nikkei) cerca di capire in che direzione si stia orientando la politica britannica.

Con Payne e Parker si racconta il ritorno sulle scene di Nigel Farage l’uomo dimenticato della scena inglese che con il suo partito Brexit torna prepotentemente al centro della discussione pubblica. Con Blitz si analizza lo schieramento dei “remainers” quelli contro la Brexit, che al di là di sostenitori tra i conservatori e i laburisti, può contare su cinque formazioni: i Liberal Democrats, Change UK (nuovo movimento formato da ex conservatori ed ex laburisti), i Greens, lo SNP (gli autonomisti scozzesi) e Plaid Cymru (gli autonomisti gallesi).

Il quotidiano londinese, ampiamente schierato per il massimo di multilateralismo possibile e quindi contro la Brexit, da un parte si chiede se Farage sarà ancora una volta un elemento che dinamizza la scena britannica ma non riesce a costruirsi un reale e decisivo peso politico, e dall’altra si domanda se l’incapacità dei “remainers” di trovare forme di unità, anche tra le organizzazioni non regionali, sia un elemento che aiuterà o danneggerà il loro impegno perché Londra non abbandoni l’Unione europea.

Questi articoli così schiacciati sull’attualità ma comunque, secondo le nobili tradizioni del quotidiano che li ospita, ricchi di informazioni, andrebbero forse letti insieme a una recensione dell’11 maggio, scritta dal deputato conservatore Jo Johnson (dimessosi dal governo May per le incertezze nel perseguire la Brexit) sul Financial Times Week end che ragiona su due saggi appena usciti (“The End is Nigh” dello sotrico Robert Crowcroft e “Appeasing Hitler” del giornalista Tim Bouverie). Questi saggi analizzano l’atteggiamento britannico verso il nazismo e i duri conflitti politici a Westminster che anticiparono la scelta finale di contrastare con la guerra la folle politica aggressiva di Adolf Hitler. I due libri molto diversi per impostazione e formazione culturale degli autori, ripercorrono i dilemmi della politica britannica degli anni Trenta: le sorti dell’impero, la paura dell’Unione sovietica, l’idea che si potesse convivere con i nazisti.

Chi ammira il metodo Westminster per come, evolvendosi nei secoli, ha costruito e poi garantito la libertà politica, insegnandola al mondo, può capire leggendo la fase cruciale degli anni Trenta del Regno Unito, come il Parlamento sia stato in grado di assumere la scelta decisiva solo quando si comprese appieno quale era la posta in palio.

La confusione evidente che oggi domina la discussione politica in Londra, potrebbe dunque nascere anche dal fatto che il nocciolo delle questioni in ballo non è stata ancora raggiunta.  E questo nocciolo essenzialmente potrebbe consistere nel tipo di equilibri internazionali che si vogliono costituire. Cioè se si debba puntare su un’alleanza fondata sui valori di libertà cresciuti in Occidente poi diventati largamente universali, che in qualche modo tenga la barra del “mondo”, o se si ritenga possibile un sistema di relazioni multilaterali in cui potenze tendenzialmente antagoniste ai valori evocati, come il neo imperialismo cinese e le sacche di islamismo fondamentalistico, possano anche giocare a dividere l’alleanza prima auspicata. Forse solo quando sarà chiarita la posta in palio anche il metodo Westminster potrà tornare a funzionare perfettamente, ridando razionalità al sistema politico britannico. Come avvenne subito prima e dopo la Seconda guerra mondiale.

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