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“In Turchia perché amo le sfide”. Cara Egonu, facce ride

La pallavolista interviene al Festival dello Sport di Trento spiegando il perché della sua scelta sportiva

egonu trento turchia 03 © Engin Akyurt tramite Canva.com

Lo sciocchezzaio vipparolo si alimenta di topoi, luoghi comuni egoriferiti. O della mitopoiesi autoriflessa. Uno è quello vittimista alla “mi si escludeva”, tipico del Blasco Rossi, che ha sempre avuto a disposizione un apparato mediatico da sbarco ma giocava, e gioca ancora passati i 70, sul mito dell’esclusione; con cinquanta sfumature di ipocrisia, dal Bennato di “io ho aperto le strade, io ero incompreso” all’incomprensione recitata praticamente da tutte le nostre ugole militanti che mai si perdevano una Festa de l’Unità, un Re Nudo, un pugno chiuso e così tiravano avanti. Ma a sentir loro, ce l’hanno fatta da soli contro il mondo, osteggiati dalla politica, dalla società bigotta, dall’industria discografica che non li capiva, dal Vaticano, dalla Cia. A 25 anni erano già star, chissà dove l’hanno scontato tutto quel purgatorio.

Ma la costruzione della leadership, come diceva Zoro a proposito di Soumahoro, richiede precisi pedaggi di esaltazione anche indecente, anche menzognera. Oggi è invalsa nel demi-monde intellettuale un’altra fandonia che ha a che vedere col parlar chiaro, col dire le cose scioccanti che in realtà non turbano nessuno. Serve a farsi notare, a spuntare qualche ospitata televisiva, i suoi principali alfieri stanno nel giro Fatto Quotidiano, son gli Orsini e le Ipazia che gravitano attorno al paradosso, volano alto, si fa per dire, non si sentono di condannare dittatori invasori o potentati terroristici chiaramente e semplicemente, debbono metterci in mezzo la contestualizzazione antiamericana, “peccato, così pochi ostaggi yankee”, e quando gli fanno notare che hanno detto qualcosa di vergognoso si rifugiano in clinch: ma io sono contro il pensiero dominante, sono l’unica alternativa. E pazienza se l’alternativa si risolve in una idiozia da liceali viziati, che di antagonista non ha proprio niente perché la posizione dominante è se mai quella, tra goliardia e irresponsabilità, di chi convince i fanatici d’importazione di poter scatenare l’inferno anche qui, visto che hanno tanti supporter.

Ma la madre di tutte le fanfaluche resta “la sfida”: quando uno combina qualche cazzata, o semplicemente non sa come giustificare la propria virtù da fariseo, se la cava con la sfida, è stata una sfida, io vivo di sfide, a me piacciono le sfide. Tra questi esistenzialisti non poteva mancare la nostra Paola Egonu, la lunga, che al Festival dello Sport di Trento ha eretto ennesimo l’ennesimo totem di se stessa a se stessa: “Sono andata in Turchia per togliermi una soddisfazione, mi piacciono le sfide, volevo complicarmi la vita”. Sì, la vita spericolata. Sta’ buona, lunga, sta’ schiacciata: nessuna sfida, tu, da profetessa dei vittimismo razzista, sei finita in un Paese omofobo e discretamente razzista che però ti copriva di una carrettata di bigliettoni. E non ti sei fatta il minimo scrupolo cara Egonu. La sfida sta qui, è quella contro la coerenza e magari la decenza. Libera scelta, certo, ma perché buttarla sempre sull’epica?

Egonu è stata gentilmente indotta a lasciare Conegliano, dove le compagne nunlareggevanopiù, dati gli atteggiamenti divistici, e ha trovato l’alternativa milionaria; si è fatta pigliare dai turchi e ci sarebbe anche rimasta, senonché la storia si è ripetuta, Istanbul come Conegliano e lei è ritornata nell’odiata patria di merda, dove non farebbe mai un figlio. Per sfida? Per complicarsi la vita? Ma no, perché, ancora una volta, le davano un milioncino d’ingaggio, che però era niente a petto dei lucrosissimi e numerosi sponsor che corredevano il pacchetto. Disgraziatamente, Egonu è stata fatta fuori dalla Nazionale per divergenze con il coach, che forse la considerava più incline alle copertine che agli allenamenti.

Tutto qui, la sfida è una banalissima questione pecuniaria, vecchia come l’uomo, la donna e la lunga pallavolista. Sempre queste esagerazioni: ma lascia perdere, che se non sei i Rolling Stones, 80 anni maledetti e non sentirli, parlare di sfide, di filo del rasoio, di esistenza esagerata, diventa patetico. Fortuna che un’altra campionessa, anche lei nera, collega della lunga, la Myriam Sylla, seduta a fianco, ha fatto tornare tutti sulla terra con l’arma gentile della sincerità: “Anche a me piacciono le sfide, ma finché è possibile gestirle in Italia…”. Sylla otterrà meno celebrità, meno rotocalchi: non gioca al martirio, non è controrazzista, non pensa che il suo Paese si popolato da baristi stronzi che servono apposta il caffè freddo, è paga di quello che ha, e che poco non è: un mestiere che è un gioco, gloria, soldi abbastanza per campare alla grande, una vita non estrema ma certo fortunatissima rispetto a milioni di coetanee: una vita made in Italy, senza farla tanto lunga. Non si lagna, non accusa, non andrà forse a Sanremo in processione, ma si è guadagnata la nostra stima, per quello che vale.

Sai come si dice: bocce ferme, le cose stanno come stanno, niente trucchetti, niente colpetti dell’ultimo istante, buona lì e evitiamo, per favore, di erigere il tempio alla divinità che siamo, evitiamo di farci feticci di noi stessi. Cosa alla quale indulgono campioni, imbrattacarte che considerano un diritto-dovere dare della bastarda (ma intendono: stragista) alla presidente del Consiglio, conduttori milionari che posano a epurati, rockstar conformiste, e, purtroppo, sempre più giornalisti, testimoni di un’ansia d’informare che non c’è più, influencer da strapazzo, feticisti allo specchio, esibizionisti dell’esistenzialismo vittimistico senza più pudore.

Max Del Papa, 16 ottobre 2023