La doppia sfida di Roma a Bruxelles

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“Let’s move on”, direbbero altrove: cioè andiamo avanti, non fermiamoci all’analisi del passato.  Personalmente, mantengo enormi perplessità sull’accordo maturato a Bruxelles una settimana fa, e celebrato trionfalisticamente da un interminabile Cinegiornale Luce. Con grandissima efficacia, ai tempi dell’emergenza sanitaria, Nicola Porro coniò la formula del “giornale unico del virus”. Qui, con rare e meritorie eccezioni, siamo passati al “giornale unico eurolirico”. Il mio scetticismo, invece, è legato ai tempi (lontanissimi) delle erogazioni, al fatto che saranno centellinate anche nel 2021, al fatto che la contropartita sarà rappresentata da pericolose tasse europee e da un aumento dei nostri contributi all’Ue, e soprattutto al fatto che le risorse – se e quando arriveranno – andranno essenzialmente destinate a progetti (penso al famigerato “green new deal”) la cui utilità è tutta da dimostrare, in particolare per l’Italia.

Ma, come dicevo, let’s move on. Proviamo a ragionare sul futuro. Su cosa fare e cosa non fare. In positivo, ci sarebbero due obiettivi ineludibili, e che però non potranno essere perseguiti con i fondi europei: mi riferisco per un verso al rinvio delle scadenze fiscali per tutto il 2020, e per altro verso a uno strutturale abbassamento di tasse dal 2021 in poi. L’economia la fai crescere così. Ora, premesso che questa strada non potrà essere percorsa con la benzina dei soldi Ue, mi pare indifferibile l’apertura di una discussione su come realizzare comunque questo obiettivo.

Passiamo al non fare, a ciò che – a mio modo di vedere – non va fatto. Occorre assolutamente evitare (ma come?) di ottemperare alle raccomandazioni specifiche per paese elaborate dall’Ue per l’Italia, e purtroppo citate nel recentissimo deal europeo. Si tratta di quel complesso di indicazioni della Commissione che sarebbero devastanti per noi: ripristino dell’Imu sulla prima casa, stangata sul catasto, taglio delle agevolazioni fiscali. Cioè tutti poderosissimi aumenti di tasse. Il tema non va sottovalutato: è l’equivalente della manovra ammazza-Pil che fu realizzata da Mario Monti nel 2011, quando arrivò a triplicare la tassazione immobiliare, portandola da 9 a 25 miliardi complessivi (negli anni successivi sarebbero stati tolti solo 4 miliardi di Imu prima casa, e neanche a tutte le abitazioni principali). Risultato: liquidità degli italiani prosciugata, valore degli immobili abbattuto, mercato immobiliare ammazzato. Sarebbe il caso di non ripetere la “terapia”.

Da ultimo, una considerazione di fondo, di principio. Va rifiutata l’idea che tutti i “malati” siano a Roma, e tutti i “medici” a Bruxelles. Anche prima dell’emergenza Covid, e almeno da un decennio, l’Ue era (e rimarrà) l’area sviluppata del pianeta con il livello di crescita più basso. Vogliamo invece raccontarci che l’Ue abbia sempre seguito la strada giusta? Non mi pare proprio: tasse alte, regolamentazione altissima, e una tragica mancanza di competitività rispetto alle economie più forti.

E ora (anche ammesso che a un certo punto i fondi europei affluiscano) rischia di affermarsi l’idea che una svolta positiva possa passare da una centralizzazione delle decisioni di spesa. Nei primi anni Novanta, un gigante come Antonio Martino, mai sufficientemente ascoltato dal centrodestra italiano, coniò la formula della “democrazia acquisitiva”, per criticare in modo efficacissimo la pretesa della vecchia politica italiana di acquisire il consenso (anzi, di acquistarlo materialmente, precisava lui) attraverso la spesa pubblica allegra, clientelare, improduttiva.

Ora, trent’anni dopo, la sensazione è che il rubinetto della democrazia acquisitiva si sia spostato a Bruxelles. Eppure gli eurolirici tacciono sul punto, anzi festeggiano freneticamente: come se il problema non esistesse più, essendo solo cambiato il soggetto erogatore. Anzi, il soggetto acquirente.

Daniele Capezzone, 27 luglio 2020

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