La Flop Ten del 2019

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Non occorre scomodare i politici per trovare il peggio del 2019. I nuovi politici hanno distrutto tutto. Anche i proverbi. Persino “tutte le strade portano a Roma” ormai è soltanto un vecchio ricordo: se non precipiti in un viadotto, caschi in una buca della Capitale, se non cadiamo in una voragine ormai una voragine si è aperta in noi che “vediamo” la politica straparlare di ogni argomento tranne che di politica. Ormai l’abbiamo capito: in politica non ci sono traditori, ci sono solo perdenti.

Ed è così che la democrazia è più esibita che esercitata e la libertà più social che sociale. E allora ecco la Flop Ten del 2019

1. Greta Thumberg: forse non è un caso che al cinema e in libreria sia tornato Pinocchio. Greta Thumberg si aggiudica il primo posto come miglior burattino di questo anno. Vittima di un sistema di marketing comunicativo che è una associazione a delinquere di stampo immaginario. Anche un “non udente” capirebbe che i suoi discorsi sono come minimo scritti dal padre, il suo coach mentale o da un software troppo sofisticato. Greta parla parla parla, fa scendere in piazza milioni di ragazzi per protestare al venerdì, ormai gli unici ponti sicuri sono quelli delle vacanze, per poi tornare al lunedì in classe a scrivere con la penna biro di plastica, l’astuccio di plastica, lo zaino di plastica, lo smartphone di plastica. Greta invita tutti a scrivere a gesti, ad indossare un saio e a comunicare attraverso segnali di fumo. Solo allora sarà davvero il tuo “Time”.

2. Roberto Saviano. Il “Giovane Holding”, ex scrittore di successo, ex editorialista di successo, ex sceneggiatore televisivo di successo, trova spazio ormai soltanto sui social (attraverso video con i sottotitoli) o da Fabio Fazio con i suoi discorsi da Solone talmente inutili che Saviano è forse l’unico personaggio tivù a non avere avuto neanche una imitazione perché la miglior imitazione di Saviano è lui stesso.

La scorta ormai gli serve solo per fare la ruota (da pavone). Non togliamo la scorta a Saviano, ma liberiamo la scorta da Saviano. A questo punto potrebbe assumere, per i pericoli che corre (al massimo di non essere riconosciuto), anche dei figuranti o lui, sempre dalla parte dei precari, che assuma i Centurioni che fanno le foto al Colosseo. Almeno li paga e fa qualcosa di utile e magari ritrova il suo impero. Il rischio è che Saviano finisca a fare discorsi dalla finestra o nel suo attico a New York con applausi registrati di un pubblico che non c’è: così dopo aver gravato per anni e anni su noi contribuenti che paghiamo la scorta ci toccherà pagargli anche il Sistema Sanitario.

3. Chiara Ferragni. Dopo i nostri articoli di denuncia sullo sfruttamento pubblicitario del figlio Leo, è intervenuta l’Associazione Italiana Consumatori che ha denunciato la influencer. Detto, fatto. Il profilo del piccolo Leo, 2,5 milioni di follower è scomparso da Instagram e quando appare con i genitori finalmente qualche volta il viso, come vuole la legge, è pecettato.

Di destra o di sinistra, odiatori o haters, abbiamo almeno il merito di aver salvato un bambino dal pericolo di diventare uno squilibrato.

4. Michela Murgia. Ha iniziato l’anno con il suo libello Fascistometro una serie di idiozie talmente grandi che non ci entrava neanche lei. Dopo apparizioni in tivù e radio, cercando sempre lo scoop, adesso è in tour teatrale. È stato pubblicizzato su ogni giornale – nel senso di pubblicità a pagamento – ma nessuno ne ha scritto, nessuno ha fatto una foto. Non si sa nulla del suo tour teatrale. La speranza è che l’abbiano assunta per ciò che sa fare meglio: la maschera.

5. Gad Lerner. Dalle sprangate di Lotta Continua all’autolicenziamento da “la Repubblica” perché “pagato troppo poco”, da “Milano, Italia” è passato a “Lerner, Italia”. Se gli domandi dove abita risponde “Lei è un antisemita”, lo stesso se gli chiedi l’età, la squadra per cui tifa o qualsiasi argomento. Chi tocca Lerner muore di antisemitismo. Allora, caro Lerner, al posto di parlare giustamente di antisemitismo da 30 anni perché non si fa promotore di una raccolta firme per una legge che aumenti le pene per chi insulta gli ebrei? La risposta è semplice: non lo fa perché non avrebbe più nulla da dire. Quindi lei sull’antisemitismo ci campa e mi sembra che il suo campare non sia solo da “Ultima Spiaggia”

6. Zoro. Non è un caso che gli manchi una R perché tra l’interventista dei Parioli e Zorro la differenza non è poca. È il nuovo Fausto Bertinotti, ma meno simpatico e signore, che all’eleganza del cashmere è passato alle t-shirt personalizzate. Sempre con quell’altezzosità da tribuno del popolo è rinforzato da Marco Damilano, neo(n) Pancho Villa capace di passare da “Azione Cattolica” a “L’Espresso”.

Diego Bianchi “Zoro” ha sempre quell’aria di uno che si è appena svegliato (ad oggi non è scientificamente dimostrato se lo sia) e in coppia con Damilano, che si veste e parla come i Testimoni di Geova che quando eravamo piccoli ci suonavano al citofono, risulta il più spocchioso dei giornalisti. La fine del mondo non lo so, ma la sua è abbastanza facile da intuire. Diventare una macchietta alla fine stanca anche il più radical flop dei suoi telespettatori che hanno come minimo l’abbonamento alle figurine Panini e in casa ancora il Subbuteo a 50 anni.

Quando non lo vedranno neppure i parenti speriamo che si rifugi in casa, lo immaginiamo con la testa tra le mani sbattere la testa contro la scrivania di casa in ciliegio e ottone. La speranza è che comprenda che è Bianchi nel cognome come Bianchi nella vita e vada a vivere in qualche paese della Barbagia a fare il pastore o a girare l’Italia in ape-car per vendere le sue diapositive di porta in porta.

7. Ilaria Cucchi. Avrà anche ragione: sarà anche un delitto di Stato, ma quest’anno tra lei e suo marito in un anno l’ho vista più di mia sorella. Per pubblicizzare il suo libro sul “caso Cucchi” non ha mancato una trasmissione televisiva.

Una domenica l’ho vista dall’Annunziata (che meriterebbe la classifica dei “Flop Ten” ma il cognome la inserisce di diritto), poi a “Domenica In” e la sera nell’”Arena” insabbiata di giustizialismo di Giletti. E per fortuna, in questo caso, la domenica non ascolto la radio.

8. Liliana Segre. Ha tutte le ragioni del mondo ma la stanno trasformando in una circense. Non c’è trasmissione che non l’abbia invitata almeno 20 volte, non c’è città o paesino o borgo che non le abbia dato la cittadinanza onoraria, non c’è politico che non abbia una foto con lei.

Al posto di perdere tempo ad andare da Mara Venier con zoom fisso sugli occhi per aspettare una lacrima (della Venier), a girare di tv in tv, di borgo in borgo, di piazza in piazza, di giornale in giornale, non potrebbe andare nelle scuole tedesche a ricordare ai bambini, alle banche, alle grandi industrie, alla Merkek che forse non è il caso di sentirsi i padroni del mondo? Con la finanza stanno facendo più morti che qualsiasi olocausto.

9. Fabio Fazio. Lo so, lo so, lo so. È un caso clinico, eppure, in attesa di vederlo il prossimo anno su rai4 e rai5 e di farsi creare apposta Rai6 solo una domanda che da anni mi tormenta. Non la sua faziosità, ormai anche il mio cane si addormenta, ma un solo interrogativo mi assilla: perché noi, che ci trattengono il canone Rai direttamente dalla bolletta della luce, dobbiamo continuare a pagare Filippa Lagerback che da un ventennio dice solo quattro parole” “Oggi è qui con noi…” e poi il nome dell’ospite. Caro Fazio, non può far fare l’introduzione a qualche tecnico così risparmiamo?

E poi, caro Fazio, ma le decine di interviste che ha fatto sulle quote rosa, le decine di monologhi della Littizzetto sul ruolo marginale delle donne che fine fanno? Parlava più il pappagallo di “Portobello”. Eppure Filippa Lagerback (cognomen omen) ha dichiarato a “Tv Sorrisi e Canzoni” che “Il mio ruolo è piccolo, lo so, ma sono stata io la prima ad accettarlo e sono libera di avere il mio stile, i miei abiti dicono molto, si parla persino in silenzio”. Tutto chiaro? In sintesi, la paghiamo per indossare vestiti e accessori degli stilisti.

10. Noi. Noi siamo il peggio. Siamo i peggiori. Noi che crediamo ancora in una idea e non in una ideologia. Per noi che “stare vent’anni dalla parte del torto” non è uno slogan ma un modo di vivere, noi che veniamo sempre attaccati perché siamo cattivi.

Chi ce lo fa fare svegliarci tutte le mattine e denunciare quello che non funziona? Non abbiamo sempre ragione, spesso possiamo avere torto, spesso gridiamo, ma non c’è più violenza nelle parole silenziate delicate e sinistrate di chi è convinto di vivere in un nuovo fascismo? Certo, è vero. Ma non è razzismo. È il fascismo del consumismo. Perché siamo tutti uguali. Che siamo bianchi, neri, gialli, rossi, verdi o verdoni alla fine ognuno ha il suo telefonino ultimo modello, parabole sui tetti e televisori sempre più grandi così che al sangue nelle vene hanno sostituito il plasma alle pareti.

Gian Paolo Serino, 31 dicembre 2019

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