La tragicità della Brexit

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Continuiamo con la speciale zuppa di Porro straniera. Grazie ad un nostro amico analista che vuole mantenere l’anonimato, il commento degli articoli tratti dai giornali stranieri.

Jenni Russell una pettegola commentatrice della stampa inglese, esponente dell’establishment britannico, scrive un’opinion sul New York Times del 29 marzo quasi come una specie di distruttivo necrologio di Theresa May. Quando la nominarono premier la Russell tentò di intervistarla ma la May le rispose a monosillabi. Gli amici conservatori della opinionista britannica le spiegarono che questa riservata timidezza della nuova premier era la sua cifra fondamentale, e questa descrizione sarebbe stata pienamente confermata dagli atti di chi ha guidato poi la Gran Bretagna negli ultimi due anni.

Poteva la May che nel referendum si era schierata per “il remain”, essere un elemento di unità nazionale, poteva costruire una strategia per il complicato processo della Brexit coinvolgendo il meglio della cultura inglese, poteva offrire agli altri leader europei obiettivi chiari su cui trattare. Invece si è chiusa in se stessa, ha indetto delle elezioni che hanno visto una rimonta del Labour indebolendo la maggioranza conservatrice, si è consultata solo con il marito e qualche amico, e alla fine ha portato il suo Paese a uno scacco strategico. Sarà ricordata come uno dei peggiori premier della storia della Gran Bretagna, conclude la Russell.

Non mancano gli argomenti a difesa di questa opinione, ma vi è un difetto di fondo nel suo approccio ed è quello di considerare le questioni in ballo con la Brexit come semplici, tradizionali problemi della politica tradizionale del tipo di quelli che si affrontano con i tradizionali metodi della politica: un compromesso qui, un po’ di retorica lì, una mediazione là. Sfugge a questo tipo di impostazione la tragicità di fondo della vicenda: lo scacco all’unità della Gran Bretagna che si è alimentato con la questione scozzese, sulla quale – come è successo nella vecchia Jugoslavia, in parte in Italia, poi in Ucraina, o in Catalogna – si è operato da chi cerca l’egemonia sul Vecchio Continente per attivare spinte disgregatrici nei possibili competitori, innescando il meccanismo dei referendum che hanno indebolito la centralità di Westminster.

Ci si nasconde il terribile dilemma tra la difesa di un sistema parlamentare che in qualche modo è plurisecolare e sistemi di integrazione sovranazionali in cui alcuni Stati mantengono la propria autonomia e altri devono cederne fette sempre più consistenti. Non ci si confronta con la funzionalità di sistemi politici democratici in cui la vitalità di partiti che rappresentano comunità di destino è essenziale, mentre le soluzioni di permanenti coalizioni di emergenza nazionale o di raggruppamenti che governano dal “centro” squalificando le alternative da destra o da sinistra, svuotano il senso della discussione pubblica.

Le poste in gioco non sono le “solite”, è in discussione un sistema di garanzie democratiche e liberali che è cresciuto in questo due ultime secoli e che non si capisce bene da che cosa deve essere sostituito. La May non ha dato grande prova di leadership, ma lo ha fatto nel modo di certi re inglesi o principi danesi shakespeariani rivelando l’essenza tragica del momento in cui stiamo vivendo. In questo senso tutto sommato è un personaggio più interessante di certi isterici piccoli imperialisti mercantili o di certe politiche bottegaie che nascondendo la complessità delle questioni oggi in ballo soffocano la discussione pubblica europea con mezzucci, con la retorica, con le soluzioni “tecniche” senza orizzonte strategico, spingendoci verso un destino indecifrabile. A noi italiani eredi dell’impero romano, l’idea che certi assetti siano intramontabili a prescindere dalle fondamenta su cui reggono dovrebbe fare particolarmente paura.

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